Il card. Gualtiero Bassetti tiene la prolusione al convegno “Mediterraneo, frontiera di pace” (Campobasso, 8 gennaio 2020)

Senza pace nel Mediterraneo non ci potrà mai essere un’Europa stabilmente in pace

Prolusione del Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della CEI, al convegno “Il Mediterraneo, frontiera di pace” (Campobasso, 8 gennaio 2020)

Carissimi amici e amiche,

ormai da circa due anni la Chiesa italiana sta lavorando alacremente all’organizzazione di un grande incontro di riflessione e spiritualità tra i vescovi cattolici dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che provengono da ben tre diversi Continenti: Asia, Africa ed Europa. Mediterraneo frontiera di pace, è questo il titolo dell’Incontro che si svolgerà a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020 e che vedrà anche la presenza di Papa Francesco che celebrerà l’eucarestia con cui si concluderà l’evento.

È molto importante, però, sottolineare le peculiarità di questo incontro: non ci troviamo di fronte ad un grande convegno scientifico-culturale e non è neanche una conferenza in cui si sperimentano nuove forme di dialogo interreligioso. Si tratta, invece, di qualcosa di diverso e di speciale, per molti aspetti unico, che racchiude sicuramente anche quegli aspetti culturali e religiosi che ho prima richiamato, ma che rimanda, soprattutto, al nostro modo più autentico di vivere e di essere Chiesa.

Prima di tutto, è un incontro di Vescovi, ovvero dei padri della fede, dei pastori del gregge. Un incontro di Vescovi che hanno a cuore il Mediterraneo concreto e non un sogno di Mediterraneo. Vescovi che, in altre parole, rispecchiano quella Chiesa mediterranea che rappresenta il cuore pulsante della storia primigenia del cristianesimo. In secondo luogo, è un incontro basato sull’ascolto e sul discernimento comunitario che permetterà di valorizzare appieno il metodo sinodale e cercherà di compiere un piccolo passo verso la promozione di una cultura del dialogo e verso la costruzione della pace in Europa e in tutto il bacino del Mediterraneo.

Non ci sono risultati preordinati e non mi aspetto di raggiungere obiettivi strabilianti. Sono pronto ad accogliere, però, tutto quanto lo Spirito Santo saprà suscitare in un confronto e in una discussione che, sono sicuro, avverrà con franchezza e spirito fraterno. Vescovi, sinodalità e concretezza: sono queste le tre bussole che caratterizzano indiscutibilmente l’Incontro di Bari. Ma per capire ancora meglio l’importanza di quest’evento – oserei dire l’importanza storica e non contingente – occorre far riferimento ad altre tre categorie di fondamentale rilevanza: la profezia, la crisi e la pace. Su queste tre categorie è necessario soffermarsi un po’ di più.

È necessario partire dalla profezia. Oggi il Mediterraneo è diventata un’area geografica drammaticamente all’attenzione dell’opinione pubblica: è sufficiente far riferimento alle cronache di questi giorni che investono Paesi come la Siria o la Libia, oppure a fenomeni come i migranti del mare, per cogliere immediatamente la centralità sociale e politica di questa regione. Eppure questo incontro ha le sue radici spirituali e teologiche in una storia ben più antica che precede e anticipa i fatti recenti e, in un certo senso, li racchiude tutti all’interno di una visione profetica che ha attraversato tutto il XX secolo.

Nel lontano 3 ottobre 1958, il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira – che non era un politico tout court, ma un mistico prestato alla politica – inaugurò a Firenze i «Colloqui mediterranei» con lo scopo ambizioso, come disse nel suo discorso iniziale, di «cooperare alla costruzione della pace nel Mediterraneo e nel mondo». Non si trattava soltanto di una visione geopolitica e non era neanche l’utopia irenica di un ingenuo sognatore, ma era qualcosa di molto più profondo. Si trattava infatti di una visione profetica che vedeva il Mediterraneo come il mare della “triplice famiglia di Abramo” oppure, metaforicamente, come il “grande lago di Tiberiade”. Un mare che ha generato cultura, commerci e che, attraverso il quale, si è trasmesso il cristianesimo. Il Mediterraneo, affermava La Pira, è “un universo delle nazioni illuminato da Cristo e dalla Chiesa”.

Il Mediterraneo è stato, dunque, un luogo di incontro, di comunicazione e non solo un confine. Senza dubbio un mare dall’“irriducibile complessità”, come lo ha definito Andrea Riccardi, che ha visto una storia segnata da conflitti ma che, allo stesso tempo, ha una vocazione altissima: un mare che unisce e non divide.

Lo sapeva bene Giorgio La Pira che, essendo cresciuto in Sicilia e abituato da sempre a contemplare il Mar Mediterraneo, elaborò un’immagine che svilupperà lungo tutta la sua vita: la cosiddetta «storiografia del profondo». La «storiografia del profondo» evoca l’idea di una storia «messianica» con cui La Pira descrive «il movimento teleologico della storia sotto la ferma e immutabile guida di Dio e il soffio trasformatore dello Spirito». È un’immagine che il sindaco di Firenze elabora proprio dall’osservazione del Mar Mediterraneo: «sotto le tempeste della superficie, temibili per le singole barche – scrive Piersandro Vanzan – le immote profondità marine incanalano, senza deviazione possibile, correnti impetuose e sorreggono immobili l’alternarsi delle maree».

In questo equilibrio cosmico e in questa visione profetica, La Pira sviluppa la sua visione sul Mediterraneo. Una visione di incontro tra le tre religioni di Abramo ma anche e soprattutto una visione di pace. Ecco un’altra parola densa di significati, troppe volte evocata con leggerezza, e che invece ha un’importanza cruciale per il mondo contemporaneo. Mentre nella vecchia Europa si affermano, sempre più, parole di inimicizia, nel Nord Africa e nel Medio Oriente continuano a svilupparsi guerre intestine, morti innocenti e nuove schiavitù, mentre in Europa cresce il rancore sociale e monta la paura verso il forestiero e il diverso.

Questa è dunque l’origine spirituale e culturale dell’incontro di Bari. Una profezia che viene da lontano e che si colloca nella grande stagione preparatoria del Concilio Vaticano II e che di quel Concilio, oggi, ne raccoglie uno dei frutti più importanti: il metodo sinodale. Un metodo che si fa prassi concreta riuscendo a riunire i vescovi del Mediterraneo e a farli confrontare sui grandi problemi della regione. Non si tratta di un fatto scontato e non è un evento che accende una luce solo su un contesto geografico. Oggi parlare della Siria, del Libano o della Turchia, non significa far riferimento solo al Medio Oriente ma significa parlare anche dell’Europa e dell’Africa. In altre parole, significa parlare del mondo intero, scegliendo come angolo prospettico il Mediterraneo. Ovvero, un crocevia straordinario di popoli e culture da sempre rischiarato dalla luce di Cristo. E noi chiediamo con speranza che anche oggi, mentre si torna a parlare con angoscia di terza guerra mondiale, questa luce illumini i cuori dei popoli mediterranei.

L’aver evocato la paura di una nuova guerra mondiale, un timore che si è diffuso nell’opinione pubblica dopo i recenti fatti di sangue in Iraq, introduce drammaticamente la seconda categoria a cui avevo fatto riferimento all’inizio: la crisi, o meglio, le crisi.

La gravità delle crisi che attraversano l’area mediterranea rimanda, innanzitutto, a uno squilibrio economico che troppo spesso moltiplica le diseguaglianze e alimenta divisioni e odi sociali. È importante citare alcuni dati: i 500 milioni di persone che popolano il Mediterraneo rappresentano il 17% della popolazione mondiale e producono circa il 10% del Prodotto interno lordo mondiale. Le disuguaglianze economiche che esistono però tra le due sponde del Mediterraneo sono enormi. Non dobbiamo certo imboccare la strada del rivendicazionismo sociale, ma occorre ricordare quello che ammoniva tanti anni fa Paolo VI: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Uno sviluppo che però non potrà mai essere armonico ed equo se continuano a sopravvivere visioni particolaristiche ed egoistiche.

La seconda crisi rimanda infatti a un’atavica frammentazione politica e all’assenza di una visione unitaria della regione. Una divisione e una lacuna che producono una mancanza di stabilità nella sponda sud del Mediterraneo e di conseguenza anche una mancanza di stabilità nella sponda nord. Un’instabilità che si riverbera in una conflittualità latente ed esplicita e quindi nell’assenza di pace. Non è più possibile sostenere che i conflitti in Libia o in Siria non ci riguardano. Si tratta di un errore clamoroso e dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche. Il Mediterraneo rappresenta la culla di una civiltà in cui il cristianesimo è senza dubbio tra i soci fondatori. Per questo motivo, come Chiese del Mediterraneo abbiamo il dovere morale di impegnarci per promuovere luoghi di incontro e di pace facendoci promotori del dialogo religioso e culturale.

La crisi del Mediterraneo è poi la crisi dei migranti che si consuma nel silenzio assordante delle acque del mare. È di pochi giorni fa l’ultimo rapporto dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM). Anche se diminuiscono le morti in mare, il rischio delle traversate rimane altissimo. Nel 2019 i migranti, arrivati in Europa via mare, sono stati più di 110 mila e per il sesto anno consecutivo la cifra supera quota centomila. I migranti morti ufficialmente, ma il conteggio rischia di essere ben più alto, è di 1.283. Questa crisi migratoria diventa poi una crisi dei diritti umani: in particolar modo, nei campi e nelle prigioni, in Libia, nei campi profughi di Turchia, nelle isole greche come Lesbo. Anche per questo la situazione migratoria non può essere letta solo alla luce della mancanza di sviluppo e della instabilità ma deve essere inserita, invece, in un processo epocale che va governato con carità e responsabilità. Un processo alla cui base si colloca la difesa dell’incalpestabile dignità della persona umana. Come cristiani non possiamo tacere quando una vita, foss’anche una sola vita, viene uccisa o rischia di essere cancellata.

L’elenco delle crisi potrebbe essere molto più lungo e complesso. Senza dubbio, fra i Paesi del Mediterraneo le contraddizioni emergono con forza. Perché in questa regione, oggi è ancora ben visibile la frontiera fra il mondo dell’opulenza e quello della miseria, tra quello dell’esclusione e quello dell’inclusione, tra i produttori e gli scarti. Ma in virtù dell’eredità conciliare e dello sguardo profetico a cui facevo prima riferimento i cristiani possono essere un seme di profondo cambiamento delle prospettive storiche. In particolar modo, come cristiani che abitano con fiducia i cammini ecumenici siamo chiamati a contribuire a costruire l’unità nelle differenze e ad essere un vaccino contro ogni tentazione di scontro di civiltà o di utilizzo ideologico dell’identità religiosa per dividere o alzare muri.

Mai come oggi, pertanto, c’è un enorme bisogno di pace. Che come sappiamo non è soltanto assenza di guerra ma impegno indefesso a promuovere la dignità della persona umana. Pace nei nostri cuori, indubbiamente, ma anche pace per tutti quegli uomini, donne e bambini che trovano la morte nei conflitti del Mediterraneo e pace per tutte quelle famiglie che in questi Paesi, in particolar modo, in Siria hanno perso tutto: gli affetti, la casa, la vita.

Papa Francesco a Bari, nel 2018, ha detto che “la speranza ha il volto dei bambini”. E ha poi aggiunto: “In Medio Oriente, da anni, un numero spaventoso di piccoli piange morti violente in famiglia e vede insidiata la terra natia, spesso con l’unica prospettiva di dover fuggire”. Questa è senza dubbio “la morte della speranza”. Per opporsi concretamente a queste atrocità bisogna aprire, come ha detto Francesco, dei “sentieri di pace” dove si possa volgere “lo sguardo a chi supplica di convivere fraternamente con gli altri”.

L’incontro di Bari del febbraio 2020 promosso dalla Chiesa di Bari vuole essere proprio questo: il cantiere di un sentiero di pace. Il luogo di costruzione concreta di un cammino di coesione sociale, di incontro tra le persone e di dialogo tra uomini e donne. Una pace concreta, vera, autentica che parta da quella visione dell’uomo che la tradizione abramitica ci ha lasciato in eredità. “Chi è l’uomo e perché te ne curi?” si chiede il salmista. Ecco questo non è solo un interrogativo ma è un orizzonte di fede che si trasforma in un imperativo di vita che deve prendere forma quotidianamente nel nostro vissuto.

La pace non può essere derubricata soltanto a parola affettuosa o a concetto emozionale. Queste dimensioni non appartengono ai Padri della fede o alla Chiesa ma appartengono ad un mondo che non solo ha secolarizzato e sublimato le grandi eredità del passato ma le ha anestetizzate in un presente senza passato e in un mondo liquido senza spazio. Non è così. Dobbiamo riconoscere e distinguere le acque dalle rocce, le pianure dalle colline, la casa di Dio dai templi della modernità nichilista. Dobbiamo riscoprire la passione, l’amore e la dedizione per costruire una tenda di pace nel Mediterraneo. Papa Francesco in occasione di un incontro organizzato dalla Facoltà teologica dell’Italia meridionale ha usato parole che condivido in ogni sfumatura:

Non è possibile leggere realisticamente tale spazio se non in dialogo e come un ponte ― storico, geografico, umano ― tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali, mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace. Giorgio La Pira ci direbbe che si tratta, per la teologia, di contribuire a costruire su tutto il bacino mediterraneo una “grande tenda di pace”, dove possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo.

Cari amici e care amiche, mai come oggi dobbiamo acquisire la consapevolezza che non c’è Europa senza Mediterraneo e non c’è Mediterraneo senza Europa. Non ci potrà mai essere un’Europa stabilmente in pace, senza pace nel Mediterraneo.

Il Mediterraneo unisce e divide i popoli rivieraschi, unisce e divide il mondo. La storia dell’Europa moderna ci dice che quando il Mediterraneo è usato per dividere, i poveri – a qualsiasi riva appartengano – finiscono per soffrirne. È un inganno demagogico e pericoloso far credere che la divisione offra garanzie: l’interdipendenza dei popoli, infatti, non è una scelta ideologica “buonista”, è un dato di realtà che va gestito.

Questa la sfida che ci troviamo a vivere, care sorelle e cari fratelli: una sfida che noi cristiani cogliamo per rimanere fedeli alla sequela di Gesù.

 

Card. Gualtiero Bassetti

Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della Cei