La violenza tra i ragazzi.

Verso Firenze. L’arcivescovo Vukšic: «A Sarajevo un clima di odio»

Restano crivellati di colpi alcuni condomini di Sarajevo. E lungo le strade compaiono quelle che agli occhi di uno straniero sembrano macchie rosse impresse sui marciapiedi. Sono invece le «rose del dolore», come qui vengono chiamate: formano una sorta di “Via Crucis di guerra” e indicano i punti in cui hanno seminato morte e sangue le bombe cadute sulla città nell’assedio durato dal 1992 al 1996. Le ferite del conflitto in Bosnia ed Erzegovina marcano ancora il quotidiano di un Paese dove la pace è più sulla carta che declinata nel quotidiano. «In questo periodo la situazione è bollente perché praticamente ogni giorno si sentono parole troppo forti. L’atmosfera è infiammata. Perciò serve molta prudenza», spiega l’arcivescovo coadiutore di Sarajevo, Tomo Vukšic, braccio destro del cardinale Vinko Puljic, il porporato 76enne che mai ha abbandonato la sua gente negli oltre mille giorni di attacchi da parte dei militari serbi.

Il clima d’odio, per adesso verbale, preoccupa l’episcopato nazionale che in una nota chiede di abbassare i toni di fronte al «comportamento irresponsabile e alle dichiarazioni sconsiderate di alcuni rappresentanti politici, i quali provocano i sentimenti di insicurezza e di paura». Poi l’invito a «rispettare i diritti individuali e collettivi degli uomini, dei popoli e dei gruppi minoritari». Il riferimento è alla “troika” etnica sancita nell’accordo di Dayton che ha chiuso il conflitto nell’ex Jugoslavia. Tre comunità che compongono la Bosnia ed Erzegovina e che coabitano in un equilibrio precario: la metà degli abitanti è bosniaca, quindi musulmana; oltre un terzo è serba, cioè ortodossa; e i cattolici, che significa per lo più croati, sono poco meno del 15%. Una minoranza che si sta assottigliando. «Negli ultimi trent’anni almeno la metà dei cattolici se n’è andata. Prima sono stati ostaggi della guerra e poi sono emigrati », denuncia Vukšic che parteciperà all’incontro dei vescovi del Mediterraneo che si terrà a Firenze dal 23 al 27 febbraio e che sarà concluso dal Papa. Un forum affiancato dal Convegno dei sindaci delle città del bacino organizzato da Palazzo Vecchio.

Eccellenza, l’esodo dei cattolici non si ferma.

In Bosnia ed Erzegovina ci saremo sempre. In quanti, però, non è dato sapere. Oggi restiamo poco più di 350mila rispetto ai 760mila del 1991. La situazione è più critica nella Repubblica serba dove adesso vivono 15mila cattolici: erano 220mila trent’anni fa. In genere è la popolazione più anziana che rimane e quindi diminuiscono anche le nascite.

Perché si fugge?

Per diverse ragioni. Mancano i posti di lavoro; la corruzione è abbastanza estesa; non c’è sicurezza giuridica; l’intesa fra le diverse componenti etniche non è stata risolta in maniera corretta e le discriminazioni sono presenti; le manipolazioni elettorali non sono rare. Inoltre la gente è stanca delle polemiche dei politici anche perché non pochi risultano impreparati. E poi i media sono spesso velenosi. Il desiderio di emigrare è trasversale ma fra i cattolici croati è ben più diffuso.

Il Papa invita alla fraternità, all’incontro con chi ha una fede, una cultura, una tradizione differente.

Vivere la fraternità è esigente ovunque, non soltanto in Bosnia ed Erzegovina. Sembra molto più facile quando il fratello “diverso” è lontano. La fraternità è frutto dell’amore cristiano, ma nel praticarla bisogna essere contemporaneamente, come insegnava Gesù, semplici e prudenti.

Quali vie per dialogare con le altre confessioni cristiane e le altre religioni, in particolare con l’islam?

Qui diciamo che il dialogo è la nostra croce. E dunque, anche se non è accettata da tutti, occorre portarla con orgoglio e tenacia.

A Sarajevo si sono moltiplicate le moschee. C’è preoccupazione nella comunità ecclesiale?

Nel Paese l’islam non si sta radicalizzando anche se talvolta si registrano i fenomeni del radicalismo che creano apprensione. Con i rappresentanti religiosi coltiviamo buoni rapporti a diversi livelli. Non temiamo la moltiplicazione delle moschee ma la diminuzione continua della presenza cattolica e il mancato appoggio ai cattolici da parte della comunità internazionale e qualche volta anche da parte di alcuni confratelli cattolici occidentali. Lo dico con tutta sincerità. Tuttavia sono molto grato per la vicinanza e gli aiuti che giungono da numerose Chiese sorelle.

La Chiesa cattolica promuove scuole, ospedali, centri di aiuto. Possono essere strumenti di riconciliazione?

Tutti i luoghi di incontro e di formazione sono per loro natura volani di armonia. Vale tanto più per le strutture d’ispirazione cristiana. È uno dei contributi che la Chiesa offre all’intera società.

Il Papa chiede di abbattere i muri di divisione e di costruire ponti. Vale anche per la Bosnia ed Erzegovina?

Sicuramente. Anzi, direi tanto più per il nostro Paese o per Stati che vivono situazioni complesse. Il contributo più grande che può dare la Chiesa è l’amore cristiano praticato nella fraternità. Infatti è Gesù che ha abbattuto il muro di separazione, come scrive san Paolo. E i credenti sono chiamati a essere testimoni di quanto il Signore ci ha chiesto.

Nel contesto bosniaco c’è un complicato gioco geopolitico e religioso. La Russia, d’intesa con la Chiesa ortodossa, e i Paesi islamici fanno sentire la loro influenza. Quali gli effetti?

Qui, com’è evidente a tutti, si incrociano diversi interessi. Per questo si sente spesso ripetere che è in corso una partita politica e strategica “a scacchi”. E non è per la prima volta. Ma non è dato sapere quali saranno le conseguenze.

Come i cattolici guardano all’Unione Europea?

Noi sogniamo l’entrata nella Ue. Prima di tutto, perché sarebbe una via per garantire la pace e favorire lo sviluppo. E perché noi ci sentiamo parte del continente. Certo, la Chiesa non può condividere alcune posizioni morali e ideologiche che vengono portate avanti dall’Unione Europea: in questo senso la Ue sarebbe anche uno spazio da rievangelizzare. Il che è una grande missione per i cristiani europei. Ma dobbiamo domandarci: hanno il necessario coraggio?

Nel Mediterraneo, segnato dal fenomeno migratorio, la Bosnia ed Erzegovina è una delle tappe della rotta balcanica. Come favorire l’accoglienza?

È un dovere cristiano mostrare la carità verso i fratelli che lasciano le loro terre d’origine e occorre contribuire alla loro ospitalità. Tutt’altro è parlare della questione della sicurezza: ambito di competenza delle autorità civili e delle forze dell’ordine. Nostro compito è abbracciare chi arriva, entro le possibilità che abbiamo.

Tema pandemia. Quali le ripercussioni economiche e sociali?

L’emergenza sanitaria ha molto aggravato la già precaria situazione nazionale. La Bosnia ed Erzegovina è un Paese che, prima della crisi legata al coronavirus, avvertiva ancora molto i postumi della guerra: a livello economico, sociale, psicologico. Durante i mesi del Covid in molti hanno come rivissuto i momenti di paura, insicurezza, angoscia che avevano sperimentato tre decenni fa. E non pochi hanno perso il lavoro.

È possibile un nuovo conflitto nei Balcani?

Davanti al pericolo che possiamo correre, la nostra Conferenza episcopale ha esortato al dialogo come «unico modo moralmente accettabile che i rappresentanti del popolo, eletti nei deputati organismi, devono seguire nelle trattative per trovare le dovute soluzioni». E hanno spronato alla «correzione delle ingiustizie» anche per assicurare la salvaguardia dei diritti di ciascuno.

 

Da Avvenire del 29 dicembre

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