Prolusione del Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della CEI, all’inaugurazione dell’anno accademico 2019/2020 dell’Istituto Teologico “San Tommaso” (Messina, 13 dicembre 2019)
Il punto di partenza di questa mia riflessione è dato dal riferimento ad una umanità concreta, situata in un tempo e in uno spazio: gli uomini e le donne del Mediterraneo oggi. La preposizione «incontro» suggerisce, invece, la seconda parte del discorso, dedicata alla prospettiva entro la quale cogliere la realtà degli uomini del Mediterraneo nel nostro tempo.
È il Verbo di Dio che va incontro agli uomini, divenendo carne nell’uomo Gesù di Nazareth. Egli, ebreo e mediterraneo, ci offre qualcosa di più di un criterio ermeneutico astratto, poiché Gesù di Nazareth implica un modo di esserci nella realtà, uno stile per vivere. Se non si sta in un certo modo, se non si adotta lo stile di Gesù, non si può vedere la realtà in maniera piena e (come direbbero i teologi medievali) «finale», cioè nel suo «senso compiuto». È la purezza del cuore che ha permesso a Gesù di Nazareth di vedere nel profondo la realtà, e le beatitudini descrivono in maniera «poliedrica» lo stile della sua esistenza terrena.
Lo sguardo dei puri di cuore, «affinato» nei discepoli di tutti i tempi dall’ascolto del Vangelo di Gesù, dalla presenza discreta dello Spirito Santo, insieme alla vita nelle beatitudini rende accessibile il futuro del Regno di Dio, già presente nell’incarnazione del Verbo. Un futuro – ecco la terza parte del mio discorso – donato ma anche affidato alla responsabilità degli uomini. Un futuro che chiede che il presente sia abitato con fiducia e responsabilità. È nel presente del Mediterraneo, drammatico ed esplosivo, che è chiesto a noi cristiani mediterranei, a noi Chiese del Mediterraneo, di lavorare senza stancarci per costruire il Regno di Dio che viene e che già c’è.
Il nostro compito di cristiani mediterranei, inseriti nel contesto fragile e sofferente del Mediterraneo di oggi, deriva dal modo in cui lo «vediamo» e dal modo in cui ci abitiamo a imitazione di Gesù. Obiettivo centrale del mio discorso è suggerire una riflessione sulla particolare missione delle Chiese mediterranee a partire da alcune intuizioni (che ritengo preziose e attuali) di Giorgio La Pira. Proprio in questa vostra città, crocevia di tutte le culture mediterranee, egli ha maturato la sua vocazione cristiana, mistica, radicalmente evangelica e genuinamente mediterranea. Intuizioni, quelle lapiriane, che trovano «conferme» nel magistero conciliare e post-conciliare e – con una particolare e misteriosa assonanza – nel magistero e nel ministero di papa Francesco.
Il Mediterraneo e gli uomini
Il Mediterraneo appare oggi come un coacervo di violenza, diseguaglianze, sfruttamento, interessi non informati al bene comune ma alla logica del più forte, senza attenzione e cura dei deboli. I sistemi politici con cui è organizzata la vita dei popoli mediterranei sono – anche se con diverso grado di intensità – in crisi. Alcune compagini statali sono del tutto saltate (Iraq, Libia, Siria), altre conoscono tensioni fortissime (si pensi in questo momento al Libano). La guerra, in più punti del Mediterraneo, è l’esito drammatico di antiche divisioni e scelte sbagliate del passato, alle quali, forse, non sono estranee logiche coloniali, vecchie e nuove. Lo stesso scontro fra Russia e Ucraina, essendo il Mar Nero parte integrante del sistema mediterraneo, deve essere considerato in questo ben triste elenco.
I popoli della sponda nord non possono certo pensarsi al riparo da tali tensioni, sia per i vincoli militari, economici e commerciali che li legano alle zone di conflitto e di fermento, sia per le migrazioni generate dagli squilibri economici e dai conflitti stessi. Il senso di insicurezza suscita la messa in discussione di principi e ordinamenti che solo fino a pochi anni fa erano considerati conquiste irrinunciabili e punti di non ritorno a riguardo dei diritti umani e dello stato di diritto (interno e internazionale). È erosa la tensione ideale a costruire un destino condiviso dei popoli fondato sulla promozione della dignità della persona umana, a prescindere dall’appartenenza culturale, religiosa, etnica.
Sembra diminuire, pericolosamente, il senso di orrore e vergogna per i crimini indicibili che hanno caratterizzato la storia europea dei secoli scorsi, e in particolare del secolo scorso: il razzismo, l’antisemitismo, il ricorso sistematico alla violenza per l’affermazione di interessi particolari o nazionali. Stiamo cioè attraversando un momento buio della storia mediterranea, non certo il primo.
Il Mediterraneo non è solo teatro di guerre, è anche una frontiera che divide aree economiche e demografiche disomogenee. La violenza delle guerre, la violenza dello sfruttamento economico, la violenza esercitata sull’ambiente e sul clima generano pericolose fragilità. Innanzitutto, la fragilità delle persone esposte a crisi alimentari, a malattie che la miseria rende mortali, alla mancanza della possibilità di imparare, di lavorare, di migliorare la situazione di vita propria e dei figli. In secondo luogo, la fragilità dei sistemi di protezione e promozione della persona disegnati dalle costituzioni delle democrazie più avanzate.
In terzo luogo, la fragilità del sistema internazionale, nel quale il ruolo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite pare essere ridotto ai minimi termini, così come l’approccio multipolare alle grandi questioni globali sembra in difficoltà. Queste fragilità diventano terreno fertile per paure sociali, chiusure, senso di insicurezza, perdita di fiducia nelle istituzioni anche perché mancano leadership politiche, economiche e culturali credibili, in un contesto ancora segnato dalle conseguenze della crisi economica scoppiata nel 2008.
Il Mediterraneo non è solo questo, non è, cioè, solo un coacervo di crisi: è anche (anzi, prima di tutto) luogo in cui l’incontro fra le persone e le culture ha generato e genera autentici tesori dell’ingegno e della creatività, di cui tutti siamo beneficiari. Il Mediterraneo è culla di civiltà. Ma è un tesoro fragile, la cui ricchezza, per essere protetta e messa in valore, va vista nel profondo. Lo sguardo superficiale sulla realtà mediterranea, cioè lo sguardo che si ferma agli interessi del momento, conduce a scelte non risolutive che ingarbugliano i problemi e le crisi, producendo sofferenze, morte, instabilità e incertezza.
Il punto di vista superficiale e interessato non è l’unico che possa essere rivolto alle realtà del Mediterraneo: ve ne è un altro non superficiale, che assume la lunga e complessa storia della regione ed è quindi capace di custodire l’anelito profondo trasmesso da tutte le culture mediterranee, che è un anelito – direbbe La Pira – teologale e solidale. I credenti di tutte le religioni mediterranee devono dare il loro contributo insostituibile e necessario affinché questo sguardo approfondito, nel rispetto e nella valorizzazione delle stesse differenze religiose, sia uno sguardo condiviso.
L’esistenza nelle culture mediterranee dell’anelito profondo alla bellezza teologale e alla solidarietà è attestata nell’arte, nell’architettura, nella poesia, nelle tradizioni popolari dell’accoglienza e della laboriosità, nei testi legislativi, nelle Scritture Sacre che nel Mediterraneo hanno avuto la loro culla. L’architettura delle nostre città e dei nostri villaggi, in ogni latitudine e longitudine del Mediterraneo, ha creato e crea spazi di ospitalità, accoglienza, confronto, preghiera. Cosa appartiene di più all’anima profonda del Mediterraneo: le cattedrali, le foresterie dei monasteri, le piazze, il posto dell’ospite pensato anche nelle abitazioni più semplici e povere, oppure i centri di detenzione e le «strisce» di sicurezza, ritagliate con la violenza e l’illegalità, al fine – tra l’altro – di concentrare milioni di persone che l’Europa non è in grado di accogliere? Dove stiamo tradendo noi stessi, la nostra anima mediterranea? In quali di questi luoghi?
Incontro agli uomini
Per rispondere a questa domanda, che non è retorica ma drammatica, occorre dotarsi di uno sguardo profondo sulla realtà del Mediterraneo. Il Papa, nel suo discorso a Napoli del giugno scorso, ha formulato una consegna che riguarda tutti i cristiani del Mediterraneo, in particolare quelli impegnati nel lavoro teologico. Un Istituto teologico come il vostro, situato nel cuore del bacino marittimo, nella città che ha iniziato alla cultura Giorgio La Pira, non può che sentirsi in prima linea. Francesco chiede di elaborare e «vivere» una teologia mediterranea del dialogo e dell’accoglienza, a partire da alcune questioni, come afferma il Papa, «spesso drammatiche», che si possono tradurre in quelle domande già poste nell’incontro interreligioso di Abu Dhabi:
Come custodirci a vicenda nell’unica famiglia umana? Come alimentare una convivenza tollerante e pacifica che si traduca in fraternità autentica? Come far prevalere nelle nostre comunità l’accoglienza dell’altro e di chi è diverso da noi perché appartiene a una tradizione religiosa e culturale diversa dalla nostra? Come le religioni possono essere vie di fratellanza anziché muri di separazione? Queste e altre questioni chiedono di essere interpretate a più livelli, e domandano un impegno generoso di ascolto, di studio e di confronto per promuovere processi di liberazione, di pace, di fratellanza e di giustizia[1].
Come vedere il Mediterraneo in profondità, come scorgerlo quale culla di civiltà che non siano prodotte esclusivamente dalle guerre e dagli scontri, ma dagli scambi, dai commerci, dal dialogo, dalla curiosità, dalla sete di bellezza, dalla sete di Dio? L’intuizione di Giorgio La Pira circa il Mediterraneo come «grande lago di Tiberiade» è, a mio parere, davvero illuminante.
Essa ci costringe a interrogare nel profondo il mistero cristologico: il mistero dell’incarnazione (fino alla morte in croce) e della resurrezione come rottura della barriera della morte e di tutti i muri di divisione. Gesù di Nazareth è il Verbo di Dio che diventa carne e che entra in una storia e in una cultura precisa: ne assorbe i valori, le tradizioni, i linguaggi e ne assume i limiti e i condizionamenti e pure – come riverbero di quella libertà che egli sperimenta nella relazione col Padre[2] – non ne resta prigioniero e abbatte tutte le barriere imposte dalle logiche del clan e dell’appartenenza etnica. «Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli? Chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, mi è fratello, sorella e madre»[3].
Non solo l’abbattimento delle frontiere familiari, ma anche di quelle etniche, culturali e religiose: pensiamo al racconto della guarigione della figlia della donna siro-fenicia[4]. Un racconto coraggioso e sconvolgente che ci mostra Gesù che cambia idea e contraddice il suo stesso comando di rivolgersi solo alle pecore sperdute di Israele[5]. Gesù abbatte la barriera religiosa, politica, culturale e forse anche psicologica perché anche in una straniera e in una nemica del suo popolo è capace di scorgere «fiducia»: «Donna, davvero grande è la tua fede»[6].
Gesù «vede» la fiducia della donna che attende da lui il bene di cui ha bisogno (la guarigione della figlia). Nessuna barriera regge, perché la sua umanità suscita attese di bene in tutti. Gesù di Nazareth è il modo in cui Dio viene incontro agli uomini. Ma Gesù ha imparato ad andare incontro agli uomini, superando i limiti della sua stessa cultura. È la purezza del cuore che permette a Gesù di vedere il Padre là dove tutti i condizionamenti culturali e psicologici gli impedirebbero di vedere il bene. Una purezza del cuore che è qualcosa di molto più di una virtù morale: è la libertà che nasce nel custodire nel cuore la relazione costante di fiducia in Dio Padre.
Tutto questo non è avvenuto in astratto, ma ci sono un qui e un ora precisi nella storia dell’umanità: un’ora e un momento precisi in cui il Verbo Incarnato ha incontrato nella sua Umanità uomini e donne concrete. Questo luogo è, per l’appunto, costituito dalle terre intorno al lago di Tiberiade, nelle strade che vanno ora verso Gerusalemme, ora verso la Galilea, ora – come nel caso del racconto citato – verso Tiro e Sidone.
L’intuizione di La Pira acquista, nella luce della vicenda di Gesù di Nazareth, tutta la sua portata: il Mediterraneo come il grande lago del tempo della Chiesa, che è il tempo dello Spirito consolatore in cui abbiamo la promessa che il Risorto è con noi fino alla fine del mondo.
Ed ecco che la teologia dell’accoglienza e del dialogo nel contesto mediterraneo appare ai nostri occhi non solo un impegno dettato dalle urgenze del momento, ma un lascito delle origini stesse della vicenda cristiana. Il Vangelo non sarebbe giunto a noi senza la purezza del cuore (certo sempre difficile da custodire) dei primi discepoli e la loro capacità di scorgere oltre i confini di Israele l’azione dello Spirito Santo[7], e senza il coraggio di riconoscere che in Cristo sono stati abbattuti i muri di divisione[8].
Il Vangelo è stato annunciato attraverso un processo di interculturazione. Se fosse rimasto entro l’ambito galilaico e giudaico in cui è stato annunciato da Gesù, noi non lo avremmo ricevuto.
La storia del cristianesimo inoltre ci dice che, quando una sola cultura ha preteso di esprimere il mistero cristiano, la Chiesa si è fatalmente divisa e la sua tensione missionaria si è offuscata, se non è addirittura entrata in pericolosa e scandalosa contraddizione col Vangelo stesso.
I cristiani mediterranei sono sempre stati caratterizzati e diversificati dall’appartenenza a culture profondamente diverse: pensiamo al giudeo-cristianesimo, agli elleno-cristiani, alla scuola di Antiochia e a quella di Alessandria, e potremmo proseguire lungo i secoli. Dobbiamo riconoscere che, quando i cristiani mediterranei hanno assolutizzato la propria cultura e non sono stati capaci di trascenderla attraverso il dialogo e l’accoglienza delle diversità, essi hanno costruito coscienze ecclesiali autoreferenziali e prodotto le divisioni.
La beatitudine della purezza del cuore, che permette di vedere Dio là dove le nostre categorie culturali e i nostri condizionamenti ce lo impedirebbero, è allora – per vocazione evangelica e per lascito della storia della tradizione stessa del Vangelo – la beatitudine dei cristiani, in specie mediterranei. Proprio per questo il Papa, indicandoci il fondamento della teologia dell’accoglienza nel contesto mediterraneo, ci ha parlato di una teologia dell’ascolto: l’ascolto di chi è capace di contemplare nell’altro la bellezza e l’azione dello Spirito.
Responsabili del futuro del Mediterraneo
Se lo sguardo dei puri di cuore e l’esserci nel Mediterraneo nello stile delle beatitudini costituisce il modo di vivere, capire e trasformare la realtà di noi cristiani mediterranei, pena il contraddire la nostra stessa vocazione e le nostre stesse origini, quali sono i punti di partenza, le basi di appoggio solidi dai cui muoversi per la costruzione del futuro del Mediterraneo?
Io credo che le Chiese del Mediterraneo siano chiamate a muoversi e ad agire in «spazi profetici» concentrici e interconnessi: lo spazio della comunione delle Chiese cattoliche locali (ricche di tradizioni plurali), lo spazio del cammino ecumenico e lo spazio del dialogo interreligioso. Si tratta di spazi che – dopo essere stati chiusi, o quasi, per secoli – si sono aperti nell’ultimo secolo e in specie col Concilio Ecumenico Vaticano II.
Anche all’interno della comunione delle Chiese cattoliche di diversi riti (molti dei quali sono appunto espressione della vita di Chiese mediterranee) è, infatti, relativamente recente una piena coscienza che la pluralità delle tradizioni costituisce una ricchezza e non una «stranezza» da tollerare. Per secoli abbiamo confuso l’unità con l’uniformità, privandoci di ricchezze teologiche e liturgiche immense e contribuendo a far sentire estranei popoli nelle cui diverse lingue e tradizioni liturgiche il nome di Gesù è pregato, annunciato e amato e l’Eucarestia celebrata come memoria e pegno della sua venuta.
L’ecumenismo, poi, costituisce un’autentica conversione delle Chiese, perché le divisioni hanno – nei secoli – assecondato e fomentato le fratture politiche e culturali dei popoli rivieraschi. Grazie al cammino ecumenico le diverse Chiese mediterranee, che contano milioni di cristiani, hanno la possibilità di essere fermento di unità e pace. Esse possono costituire veri e propri spazi di confronto e ricerca di soluzioni condivise alle crisi, e condurre azioni comuni a tutela dei diritti dei senza diritto, della pace e – come ci insegnano il Patriarca ecumenico e il Papa – a difesa del creato.
Il terzo «spazio profetico» è costituito dal dialogo interreligioso. Per La Pira, che di esso fu pioniere proprio a partire dallo sguardo sul Mediterraneo, il dialogo non significava soltanto porre fine allo scontro fra uomini di diverse religioni, ma anche rivolgere uno sguardo prospettico: la «terrazza di Abramo» attraverso la quale scorgere il disegno di Dio, l’unità delle famiglie abramitiche come punto di incontro per l’unità di tutte le famiglie della Terra. La Pira era salito su questa «terrazza di Abramo» grazie all’amicizia ebraico-cristiana, radicata in lui fin dal tempo delle persecuzioni nazifasciste e all’incontro – negli anni Cinquanta – con Louis Massignon e quindi, indirettamente, con l’esperienza spirituale e umana di Charles de Foucauld. In quella terrazza aveva incontrato uomini di straordinario spessore culturale, umano e spirituale, come Martin Buber e Taha Hussein[9].
Ecco che ritorna la beatitudine dei puri di cuore, perché dalla terrazza di Abramo non si può vedere l’unità della famiglia umana se non grazie a questo sguardo. Per me è una testimonianza di valore altissimo il testamento del beato Christian de Chergé, martire in Algeria. Vi invito a rileggerlo:
La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: «Dica, adesso, quello che ne pensa!». Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze.
Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed AlTayeb, hanno posto un atto profetico con la loro amicizia e il loro documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Il dialogo interreligioso è il rifiuto radicale della falsa immagine di Dio come dio della guerra e lo spazio di contemplazione dell’unico vero Dio, più grande di ogni cosa che possa essere detta o creduta di Lui; è scelta di stile e azione nonviolenta, è tutela e promozione della dignità insopprimibile di ogni essere umano, è fonte del diritto dei poveri e delle vittime, è presupposto di relazioni internazionali pacifiche e durature, è luogo dell’impegno.
Questo spazio profetico riguarda anche gli ebrei. Ed è scandaloso che ci troviamo, dopo settant’anni dalla tragedia della Shoah, a fare i conti con il risorgere dell’antisemitismo, nella nostra Italia, nella nostra Europa. Il dialogo interreligioso, nella prospettiva di Abramo, è anche lo spazio in cui possono aprirsi percorsi di pace nel conflitto israelo-palestinese. Non dobbiamo rinunciare a pregare e operare per la pace nella Terra Santa, anche perché, fino a che quel nodo non comincerà a sciogliersi, non potranno essere trovate soluzioni durature per tutte le crisi dell’area.
Da questi spazi profetici: lo spazio della comunione delle Chiese mediterranee con il vescovo di Roma, lo spazio ecumenico e quello del dialogo interreligioso, noi cristiani del Mediterraneo siamo chiamati a muoverci – proprio come Abramo – perché abbiamo ascoltato la Promessa di un futuro aperto da costruire.
Una missione estremamente concreta, poiché ci sono frontiere da abbattere, un ecosistema da custodire, pericolose ideologie da smascherare, strutture sociali ingiuste da combattere; perché la crisi del Mediterraneo è una crisi del pane, che non è spezzato in maniera equanime e giusta. Non dimentichiamoci il magistero sociale della Chiesa: «è il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore»[10]. La pace, continua papa Francesco, «non si riduce ad un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini. In definitiva, una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di tutti non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie forme di violenza»[11].
L’ora è grave che i discepoli del Signore che vivono nel Mediterraneo prendano coscienza che la loro comunione è la prima testimonianza da rendere agli uomini e alle donne del loro tempo[12] e costituisce – se espressa attraverso l’incontro, la solidarietà, il dialogo – essa stessa una «terrazza», un punto di vista privilegiato in cui vedere i problemi dell’area mediterranea. Sono problemi organici che non possono continuare ad essere affrontati dal punto di vista di interessi parziali, o da quello degli interessi delle singole nazioni, se questi sono interpretati a scapito dell’interesse di altre nazioni e degli altri popoli della regione.
L’incontro dei vescovi del Mediterraneo di febbraio prossimo è posto al servizio di questo «cammino di Abramo». Si tratta di una occasione che vuole essere semplice e fraterna, per lasciare tutto lo spazio possibile perché i vescovi stessi si esprimano, si parlino, costruiscano visioni condivise dei problemi, delle sfide e anche delle potenzialità dell’area mediterranea.
Nessun risultato eclatante e spettacolare c’è da aspettarsi da questo «incontro di fraternità», che è un momento – credo importante – di un processo molto più lungo, proteso all’unità delle famiglie dei popoli mediterranei. Momento di un processo estremamente lungo, fragile, complesso, ma che è anche una prospettiva necessaria cui i vescovi del Mediterraneo, nella loro comunione, nella loro vocazione ecumenica, nel loro essere protagonisti di dialogo interreligioso, possono e devono dare un contributo importante perché hanno – come dice il Papa – l’odore delle pecore, sono cioè immersi nella vita dei loro popoli.
Questi popoli sono purtroppo ancora prigionieri di un pregiudizio inveterato a causa del contenzioso di matrice religiosa, culturale, politica, economica. Occorre però prendere atto che oggi siamo entrati – questo, in fondo, il messaggio di La Pira – in una nuova epoca che va costruita su criteri nuovi di convivenza dei popoli. L’era nucleare ha reso la guerra capace di distruggere l’intera umanità, e impone quindi l’esercizio a oltranza del negoziato per risolvere le questioni. Non ci si illuda che le guerre locali non comportino rischi universali; al contrario, in tutte si registrano gli interventi delle grandi (e meno grandi) potenze nucleari.
Sono quindi guerre estremamente pericolose per gli equilibri globali e sono anche una tragica e iniqua farsa, perché i contendenti globali non possono affrontarsi fra di loro e si affrontano sulla pelle degli «attori locali», senza che – per forza di cose – le vere soluzioni possano mai emergere dai campi locali. Non c’è quindi alternativa al negoziato e ne devono prendere coscienza tutti i popoli, a partire da quelli che sono coinvolti nei teatri di guerra.
Siamo entrati in un’epoca nuova dal punto di vista demografico: a partire dal XX secolo, nel Sud del mondo si registra una crescita esponenziale della popolazione, mentre nei Paesi economicamente più sviluppati dell’emisfero Nord si certifica, ormai da alcuni decenni, un drammatico inverno demografico. Anche questa sfida, che si può affrontare aumentando uno sviluppo equilibrato in tutte le parti del mondo e l’universalizzazione dell’accesso alla scuola e alla sanità (senza aver paura della vita!), ci fa entrare nella necessità di rapportarsi in maniera nuova alla gestione delle risorse della Terra, che non sono illimitate e devono essere per tutti.
Siamo entrati in un’epoca nuova dal punto di vista della difesa del creato, che stiamo letteralmente consumando e rubando alle generazioni future. Siamo entrati, poi, nell’epoca nuova dal punto di vista della coscienza dei popoli consapevoli della loro partecipazione alla vita del mondo non come sottoposti, ma come protagonisti della propria storia. Si fa sempre più evidente, infatti, quella che Paolo VI nella Populorum progressio già indicava come la «collera dei poveri», che denuncia le diseguaglianze economiche e la mancanza di dialogo nelle società e fra le società[13]. La demagogia è il peggiore strumento della politica per interpretare il risentimento dei popoli; occorrono modalità dialoganti, concrete, non ideologiche e non contrapposte per permettere che questa «collera» esprima le sue potenzialità costruttive e non distruttive, nel bisogno di società più prospere, più sicure e più libere.
Tutto questo comporta una revisione totale della mentalità nelle relazioni tra i Paesi del Mediterraneo che insiemedevono prendere atto che la loro esistenza è condizionata dalla storia e dalla geografia che li obbliga a vivere insieme. Il loro compito essenziale, per il presente e per il futuro, è imparare a vivere insieme e a essere profeti di pace e di giustizia per l’intera famiglia umana.
Card. Gualtiero Bassetti
Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della Cei
[1] Francesco, Discorso al convegno «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo», Napoli, 21 giugno 2019.
[2] Cfr. Giovanni 8, 31-42.
[3] Matteo 12, 46-50.
[4] Cfr. Marco 7, 24-30 e Matteo 15, 21-28.
[5] Cfr. Matteo 10, 1-7.
[6] Matteo 15, 27.
[7] Cfr. Atti degli Apostoli 10, 1-48.
[8] Cfr. Efesini 2, 11-19.
[9] Cfr. M. Giovannoni, F. Mandreoli, Spazio europeo e mediterraneo. Le profezie di Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2019, pp. 32-54.
[10] Francesco, Evangelii gaudium, 59.
[11] Ibidem, 219.
[12] Cfr. Giovanni 13, 34-35.
[13] Paolo VI, Populorum progressio, 49.