“Quali diritti per le comunità religiose nella città?”

Pubblichiamo la relazione del prof. Andrea Possieri (Università degli Studi di Perugia) che illustra il primo tema al centro dell’Incontro “Mediterraneo di pace”. 

Oggi, qui a Firenze, permettetemi di iniziare questa mia breve riflessione partendo da una citazione di Giorgio La Pira, il quale non è stato soltanto il sindaco di questa città, ma anche, come lo ha definito Giovanni Paolo II nel 2004, in occasione del centenario della nascita, una «figura esemplare di laico cristiano» la cui «singolare fisionomia» scaturisce «dalla feconda tensione tra la contemplazione e l’azione»[1].

Nel 1967, a Parigi, in occasione del VI Congresso mondiale delle città unite, La Pira si chiese cosa avrebbero dovuto fare le «città di tutta la terra» per raggiungere la «pace totale» senza arrivare alla «distruzione del genere umano e del pianeta». Secondo il professore di diritto romano, nonché terziario domenicano e francescano, era necessario «fare tre cose»: innanzitutto, assumere la consapevolezza che le città sono «il patrimonio del mondo, perché in esse si incorporano tutta la storia e tutta la civiltà dei popoli: un patrimonio che le generazioni hanno costruito e trasmesso a quelle presenti». In secondo luogo, scegliere la «pace millenaria»: una pace che non era solo assenza di guerra ma anche progresso economico e solidarietà tra i popoli perché, come aveva scritto Paolo VI nella Populorum progressio, lo sviluppo era «il nuovo nome della pace». E infine, collaborare «alla unità del mondo, alla unità delle nazioni» attraverso la «costruzione dei ponti» che siano, al tempo stesso, «politici, sociali, culturali e spirituali»[2].

Queste poche parole rimandano a due grandi questioni: innanzitutto, alla concezione della civitas cristiana e al rapporto tra la città degli uomini e quella di Dio; in secondo luogo, al magistero della Chiesa cattolica sulla cosiddetta «civiltà urbana». Le città, secondo la visione di La Pira, non sono «occasionali mucchi di pietre» ma hanno una «loro anima e un destino»: le città sono «misteriose abitazioni di uomini» e, al tempo stesso, «misteriose abitazioni di Dio: gloria Domini in te videbitur». In definitiva, secondo questa visione che, tra l’altro, riprende le parole di Charles Peguy, «la città dell’uomo è abbozzo e prefigurazione della città di Dio» e ogni città dell’uomo è, in qualche modo, «una città posta sul monte (…) destinata a illuminare le strutture essenziali della storia e della civiltà dell’avvenire»[3].

Nelle parole di La Pira si rintracciano gli echi dei filosofi del personalismo cristiano, in particolare le riflessioni di Jacques Maritain sulla «città pluralista», ma sono evidenti anche i forti elementi di contatto con il magistero di Paolo VI che proprio in quegli anni, nel 1971, scrive la lettera apostolica Octogesima adveniens che rappresenta una delle più importanti riflessioni della dottrina sociale della Chiesa cattolica sul ruolo dei «cristiani nella città». Quel documento, infatti, pubblicato in occasione dell’ottantesimo anniversario della Rerum novarum, cerca di dare una «risposta ai nuovi bisogni di un mondo in trasformazione». Un mondo che è caratterizzato da un duro scontro ideologico, da una nuova società industriale e, soprattutto, dall’urbanesimo che ha prodotto, con l’emigrazione dal mondo contadino, i «tristi ammassamenti delle periferie»[4]. Ma non solo. «L’urbanesimo – scrive Paolo VI – sconvolge i modi di vita e le strutture abituali dell’esistenza: la famiglia, il vicinato, i quadri stessi della comunità cristiana». L’uomo moderno, pertanto, «sperimenta una nuova solitudine» mentre la città sviluppa «discriminazioni e indifferenza» oltre che «nuove forme di sfruttamento e di dominio»[5]. Per questo motivo, conclude il pontefice, è «dovere di tutti, e specialmente dei cristiani» non perdere «coraggio davanti all’immensità della città senza volto» ma contribuire a «lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura»[6].

Nelle parole di Paolo VI riecheggiano, quindi, i conflitti umani dell’età tecnologica che sono tutt’ora in corso, e vengono anticipati, inoltre, molti temi che sono stati sviluppati nei decenni successivi in alcuni documenti come, ad esempio, il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune e l’enciclica Fratelli tutti. In entrambi casi, si fa riferimento al concetto di cittadinanza che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia». Per questo motivo, si legge nel documento di Abu Dhabi, «è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli»[7].

In questa sede, mi limiterò a citare solo due aspetti critici della cittadinanza nel mondo contemporaneo per poi toccare, nella seconda parte della mia relazione, quali sono le sfide attuali per le comunità religiose.

Il primo aspetto riguarda l’affermazione di una vera e propria «civiltà urbana» come l’aveva preconizzata Paolo VI. Nel 2007, infatti, per la prima volta nella storia umana, in tutto il mondo la popolazione delle città ha superato quella delle campagne[8]. Si tratta di una grande novità storica forse non sufficientemente tematizzata che contribuisce a produrre alcuni profondi mutamenti sociali e antropologici. Dagli anni Cinquanta ad oggi le periferie urbane sono cresciute con un ritmo esponenziale, alimentate dallo sviluppo industriale intenso e da flussi ininterrotti di immigrazione verso le città. Questa civiltà urbana, non ha solo modificato il territorio ma, come ha ben evidenziato la Laudato si’, ha alterato in modo significativo l’oikos, la nostra casa comune, fino a mettere in discussione lo statuto ontologico dell’uomo. Un grande teologo del ‘900 come Romano Guardini, già alla fine degli anni Quaranta del XX secolo, aveva delineato «la fine dell’epoca moderna» e aveva anticipato la nascita di una nuova società «ordinata dalla tecnica» in cui l’uomo – definito, seppur provvisoriamente, come «uomo-non-umano» – domina sulla natura in modo diverso rispetto al passato[9]. Di fatto, oggi, sono mutati costumi e rapporti sociali, si sono sconvolti gli stili di vita, sono entrate in crisi le relazioni familiari e quelle che papa Montini aveva definito «le strutture abitative dell’esistenza». Il risultato che ne scaturisce è quello di una nuova «civiltà urbana» – seppur con peculiarità diverse a seconda dei continenti – caratterizzata da quello che Henri De Lubac che definì il «dramma dell’umanesimo ateo»[10]: ovvero, un secolarismo ateo che si combina con una fiducia, talvolta acritica, nei confronti della tecnologia da cui scaturisce «un umanesimo senza riferimento religioso non necessariamente contro Dio ma certamente senza Dio»[11].

In secondo luogo, questa civiltà urbana è caratterizzata, sempre più, da agglomerati di persone che si strutturano come «città globali» o addirittura «città centrifughe»: queste realtà, infatti, attirano come un magnete le popolazioni delle campagne o dei villaggi più piccoli, ma al loro interno finiscono per smarrire il centro e sono caratterizzate da immense periferie che si trasformano, a loro volta, in nuove polarità e ridefiniscono il senso della comunità[12]. Inoltre, accanto a queste «città globali», che di fatto perdono la loro storica spazialità e spesso si dimenticano di quel patrimonio culturale e spirituale a cui faceva riferimento La Pira, si associano due altre inedite, nonché drammatiche, realtà sociali: in primo luogo, quelle città «caotiche e improvvisate» rappresentate dai campi profughi, ben conosciuti nel Mediterraneo, che possono assumere il volto tragico dei lager – come ha detto recentemente Papa Francesco in un’intervista a proposito della Libia – oppure dei veri e propri agglomerati urbani senza volto, come per esempio la «città spontanea» di Zaatari, al confine nord tra Giordania e Siria, che oggi rappresenta il «terzo agglomerato più grande della Giordania» e che nel 2013 arrivò a raccogliere circa 200 mila persone[13]. In secondo luogo, gli insediamenti abitativi del mondo contemporaneo si configurano anche come «città divise»: divise per etnia, per religione, per ceti sociali. In definitiva, divise a seconda delle identità e in nome della sicurezza. Una divisione fisica e non solo culturale (anche in questo caso, ben nota nel Mediterraneo) che, per fare un solo esempio, a Cipro si caratterizza per la cosiddetta green line. Una barriera che, seppur poco citata dai media internazionali, si estende per 180 chilometri, da Paralimni ad Est a Kato Pyrgos a ovest, e attraversa la città di Nicosia[14].

In questa realtà sociale così complessa, che ho accennato solo in minima parte, vorrei soffermarmi sulla domanda che dà anche il titolo a questa mia breve riflessione: quali sono oggi i diritti delle comunità religiose nella città? In questa sede, vorrei tentare di rispondere a questa domanda mettendo in evidenza tre sfide nel mondo contemporaneo.

La prima sfida è quella della «convivenza sociale» o se vogliamo declinarla con le parole di papa Francesco potremo definirla come il «diritto alla fraternità e all’amicizia sociale». Come è possibile, oggi, realizzare la «città pluralista» di Maritain e di La Pira in un mondo in cui è in atto un processo centrifugo che sta incrinando i rapporti interpersonali? E ancora: se volessimo usare le parole degli storici e dei teologi che hanno riflettuto su questo tema dovremmo chiederci: «Dio è uscito dalle città?». La risposta non può che essere negativa ed è già stata elaborata nel 2011 dall’allora cardinal Bergoglio: «Dio vive nella città e la Chiesa vive nella città»[15]. La città, in altre parole, non rappresenta «la morte di Dio», tuttavia riflette la perdita di senso dell’uomo moderno e fa emergere le difficoltà della Chiesa nel raggiungere le periferie e le nuove polarità urbane. Per questo motivo, è fondamentale acquisire la consapevolezza di due fenomeni che, insieme, fanno sentire i loro effetti nella vita delle comunità religiose: la globalizzazione e la secolarizzazione.

Oggi, infatti, viviamo in un mondo quasi totalmente interconnesso e interdipendente che, da un lato, favorisce sia l’incontro digitale/globale tra le persone che i flussi migratori in ogni latitudine, e dall’altro lato, però, facilita la nascita e lo sviluppo di gruppi umani ristretti, selezionati culturalmente, che non si aprono all’esterno e che portano alla creazione di circuiti sociali chiusi e autoreferenziali: religiosi, culturali, etnici. Accanto al fenomeno ben conosciuto dei «ghetti urbani» si assiste, infatti, come reazione a questa complessità sociale, alla costruzione di un comunitarismo ristretto ed esclusivista che apre a profonde riflessioni, non solo sull’unità del popolo di Dio, ma anche su una questione che oggi appare cruciale: ovvero il rapporto tra il fondamentalismo religioso e l’identitarismo culturale.

Mai come oggi, dunque, è opportuno chiedersi cosa significa essere lievito e sale della Terra in una realtà sociale così diversa rispetto al passato e soprattutto così proteiforme. Una multiformità che, tra l’altro, è stata fortemente accentuata dalla pandemia da covid-19 che, purtroppo, ha aumentato la divisione sociale all’interno delle città e anche all’interno delle comunità religiose. Una divisione prodotta, in alcuni casi, in nome del diritto soggettivo della libertà di cura e, in altri casi, sulla scia di controverse visioni alternative sull’origine e la diffusione del virus.

La seconda sfida per le comunità religiose nel mondo contemporaneo è quella della «libertà religiosa» un principio e un diritto fondamentale sancito nella Dichiarazione Dignitatis humanae, uno dei documenti più importanti del Concilio Ecumenico Vaticano II, e in molti altri testi successivi. L’esercizio del diritto alla libertà religiosa, un tema cruciale per i cattolici del Medio Oriente e del Nord Africa, non può non essere legato anche all’esercizio della cittadinanza attiva nel Paese in cui si vive, perché questo diritto è fortemente connesso «alla dignità di ogni persona umana e di ogni cittadino, a prescindere dalle origini, dalle convinzioni religiose e dalle scelte politiche»[16]. Purtroppo, però, secondo l’ultimo Rapporto sulla Libertà Religiosa nel Mondo, pubblicato da Aiuto alla Chiesa che soffre, questo diritto fondamentale viene leso in 1/3 dei Paesi della Terra, in cui vivono circa 5 miliardi e 200 milioni di persone, cioè 2/3 della popolazione del pianeta. Lo stesso rapporto indica, inoltre, che più di 646 milioni di cristiani vivono in Paesi in cui la libertà religiosa non viene rispettata.

Si tratta di una delle più importanti e tragiche «discriminazioni» della città moderna e del mondo contemporaneo a cui faceva riferimento quasi 50 anni fa Paolo VI. Una discriminazione che per i cristiani è diventata particolarmente dolorosa nel mondo contemporaneo tanto che oggi è addirittura più forte che nei primi secoli della Chiesa. Non casualmente, il XX secolo che ci siamo da poco lasciati alle spalle, è stato definito come «il secolo del martirio». Uno studio basato su documenti d’archivio vaticani ha calcolato che nel corso del ‘900 il bilancio complessivo di questa discriminazione parla di circa 5 milioni di morti, «uccisi esplicitamente per la loro adesione alla fede cristiana»[17].

Da questo punto di vista, appare decisivo lo sforzo magisteriale e pastorale di papa Francesco nel difendere la libertà religiosa valorizzando l’incontro e il dialogo culturale e confessionale. Nel documento di Abu Dhabi viene sottolineato con chiarezza che «il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani» e che per questo motivo «si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano»[18]. Nell’enciclica Fratelli tutti la libertà religiosa viene definita come un «diritto umano fondamentale» che necessita di «trovare un buon accordo tra culture e religioni differenti» per individuare «una via di convivenza serena, ordinata e pacifica, nell’accoglienza delle differenze e nella gioia di essere fratelli perché figli di un unico Dio»[19]. Un esempio di questa necessità nel trovare un momento di dialogo tra religioni e culture diverse è rappresentato dall’incontro del marzo 2021 tra papa Francesco e l’ayatollah Ali Sistani, durante il viaggio apostolico in Iraq, in cui non solo si è difeso il diritto della libertà religiosa ma si è anche affermato, come principio comune, la «sacralità della vita umana»[20].

Si colloca in questa direzione della fraternità universale, la terza sfida delle comunità religiose che è rappresentata dalla costruzione della pace nel mondo. La pace «si costruisce giorno per giorno», scrive Paolo VI[21], non è data per acquisita una volta per tutte e non è mai un traguardo definitivo. Occorre lo sforzo quotidiano e incessante degli uomini e delle donne di buona volontà per raggiungere questo obiettivo decisivo: senza pace, infatti, è molto difficile organizzare la convivenza sociale nelle città ed esercitare il diritto alla libertà religiosa. Nella visione espressa da La Pira all’inizio di questa relazione, la costruzione della pace – che per il credente coincide sempre con l’adattare «le mura della città terrestre a quelle della Gerusalemme celeste» – trova nella Terra Santa il suo luogo principale d’azione. Oggi, però, accanto alla Terra Santa si segnalano molte zone di crisi nel Mediterraneo. Dopo la stagione delle cosiddette «primavere arabe» e la guerra civile in Siria, tutto il quadrante del Mediterraneo viene considerato una zona geopoliticamente instabile. E anche l’attuale crisi in Ucraina ha forti ripercussioni sul bacino Mediterraneo. Non solo per l’affollamento di navi e sottomarini militari che si dirigono verso il Mar Nero, ma perché questo bacino è solcato da un intreccio di gasdotti, oleodotti e cavi a fibra ottica che assegnano a questo mare una notevole rilevanza geo-economica: in particolar modo, soprattutto per quel che riguarda le risorse energetiche, petrolio e gas, che da sempre rappresentano un fattore di forte divisività e conflittualità tra le nazioni.

Allora dobbiamo chiederci oggi qual è il ruolo che possono svolgere le comunità religiose per difendere e valorizzare la pace che possiamo definire non solo un valore, ma anche un diritto in quanto è un «dono di Dio affidato agli uomini»[22]. Ancora una volta è opportuno citare il Documento di Abu Dhabi il cui fine ultimo, occorre ricordarlo, è la «pace mondiale». Quel documento è sicuramente importante per le enunciazioni di principio sul valore «universale» della pace, ma è anche importante perché viene denunciato l’uso politico-ideologico della fede: ovvero, la strumentalizzazione delle religioni «per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco». Per questo motivo, in quel testo firmato da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, si chiede «di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione».

Senza dubbio – e mio avvio alla conclusione – le comunità religiose possono svolgere un ruolo decisivo e concreto nella definizione di un rinnovato processo di pace nel mondo contemporaneo. Papa Francesco, in particolare, propone al mondo tre vie da percorrere «per la costruzione di una pace duratura» che rappresentano altrettante sfide per il futuro della società. Innanzitutto, dopo la pandemia da covid-19, occorre ricostruire «il dialogo tra le generazioni, quale base per la realizzazione di progetti condivisi». Quindi, a seguito dell’aumento mondiale delle spese militari, è necessario favorire «l’educazione, come fattore di libertà, responsabilità e sviluppo». E per ultimo, dopo la crisi economica globale del 2008 e quella successiva causata dall’emergenza sanitaria, è doveroso promuovere «il lavoro per una piena realizzazione della dignità umana». Queste proposte – e concludo – non sono soltanto dei nobili progetti, ma sono tre «elementi imprescindibili» per «dare vita ad un patto sociale», senza il quale «ogni progetto di pace si rivela inconsistente»[23].

 

[1] Giovanni Paolo II, Lettera all’Arcivescovo di Firenze Silvano Piovanelli in occasione delle celebrazioni del Centenario della nascita di Giorgio La Pira, 1° novembre 2004.

[2] G. La Pira, Il sentiero di Isaia, Cultura editrice, Firenze, 1979, pp. 347-356. L’immagine del «ponte» è diventata oggi oltremodo celebre e anche papa Francesco ha citato in alcune occasioni l’espressione lapiriana «abbattere muri, costruire ponti». Cfr. G. La Pira, Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005, pp. 657-659.

[3] Cfr. G. La Pira, Le città sono vive, La Scuola, Brescia, 1957. Cfr. G. La Pira, Le città non vogliono morire, Polistampa, Firenze, 2015.

[4] Paolo VI, Octogesima adveniens, 8.

[5] Ibidem, 10.

[6] Ibidem, 12 e 17.

[7] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019.

[8] C.M. Galli, Dio vive in città, Lev, Città del Vaticano, 2014, p. 8.

[9] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Brescia, Morcelliana, 1960, p. 80.

[10] H. De Lubac, Le drame de l’humanisme athée, Parigi, Spes, 1944, trad. it., Il dramma dell’umanesimo ateo, Milano, Jaca Book, 1992, pp. 11-13.

[11] G. La Bella, L’umanesimo di Paolo VI, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, p. 22.

[12] A. Riccardi, La città globale segno del nostro tempo, A. Riccardi, A. Spreafico, P. Bua, Profezia e città. Il contributo della proposta cristiana per la formazione alla cittadinanza attiva, Cittadella, Assisi, 2020, in pp. 9-20.

[13] F. Bianconi, M. Filippucci, S. Ceccaroni (a cura di), Città centrifughe, Maggioli, p. 29 (in corso di stampa). Non esiste un censimento ufficiale dei campi profughi nel mondo: secondo l’ISPI nel 2012 erano circa 700 ma sicuramente molti campi sfuggivano a questo conteggio.

[14] Cfr. J. Calame, E. Charlesworth, Città divise. Belfast, Beirut, Gerusalemme, Mostar e Nicosia, Medusa, Milano, 2012.

[15] A. Riccardi, Presentazione, in C.M. Galli, Dio vive in città, cit., p. 12.

[16] Benedetto XVI, Ecclesia in Medio Oriente, 25.

[17] Cfr. A. Riccardi, Il secolo del martirio, Mondadori, Milano, 2000.

[18] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, cit.

[19] Francesco, Fratelli tutti, 279,

[20] Cfr. M. Raviart, L’incontro tra Francesco e Al-Sistani, guardando alla pace in Iraq e il Medio Oriente, in «Vatican News», 6 marzo 2021.

[21] Paolo VI, Populorum progressio, 76.

[22] Giovanni Paolo II, Messaggio per la XV Giornata mondiale della pace, 1982.

[23] Francesco, Messaggio per la LV Giornata mondiale della pace, 2022.