Foto Gennari/Siciliani

La pace del Mediterraneo tra vocazione e missione

Nelle occasioni in cui incontro comunità di studio e ricerca teologica rivolgo sempre una raccomandazione, che – nel caso di oggi – è solo apparentemente distante dal tema assegnatomi: rileggete spesso e fate vostre le parole che papa Francesco ha scritto all’Università Cattolica Argentina[1]. Anche la Chiesa italiana ha bisogno di una teologia che non nasca in laboratori asettici, ma abiti e interpreti le frontiere, si nutra del «fiuto del popolo di Dio» e lo faccia crescere.

La teologia nasce nella vita della Chiesa e nelle sfide che essa affronta per amore del Vangelo. Il rigore scientifico è organico a un imprescindibile e antecedente momento che coinvolge tutti i battezzati nel tessuto vivo della Chiesa. La teologia sente cum ecclesia perché nasce in una Chiesa di popolo da cui riceve il Vangelo: un popolo – gerarchicamente ordinato, ma non gerarchicamente appiattito – che trasmette e ricomprende il Vangelo nei contesti nei quali vive, soprattutto quando vive nelle «trincee sociali» e non fugge dai «crocevia delle ideologie»[2].

Un popolo radunato e riempito di Spirito Santo, che gode della infallibilitas in credendo e che ha gli strumenti per discernere ciò che lo Spirito chiede nei contesti difficili e promettenti che viviamo. Questi strumenti sono la Parola di Dio, la liturgia, i ministeri, il magistero e, prima ancora, le comunità cristiane stesse, con i loro carismi e le loro competenze. Il popolo di Dio ha il diritto di contare sulla competenza e la passione dei teologi e delle teologhe per discernere la realtà alla luce delle radicali esigenze del santo Vangelo e della fede nella presenza costante della Misericordia di Dio che guida la storia.

La Puglia, per storia, collocazione geografica, contingenze presenti, è una frontiera che, per la testimonianza dei suoi santi, è abitata da una Chiesa profetica. E sono lieto, qui, in questo luogo, di ringraziare per la memoria e la testimonianza di don Tonino Bello. Ricordo in maniera vivissima quando, segnato già dalla malattia, insieme a tanti altri e mescolato con tanti altri, valicò le frontiere insanguinate dei Paesi balcanici per raggiungere Sarajevo assediata. Ero rettore a Firenze e alcuni seminaristi mi chiesero di partecipare a quella marcia; vissi – come potete immaginare – giorni di grande apprensione. Don Tonino aveva capito che a Sarajevo e nelle altre città martirizzate dei Balcani non si era risvegliato solo il mostro dell’odio etnico, ma che ancora una volta l’Europa cedeva alla mortifera tentazione di ridefinire i suoi equilibri sulla guerra.

Una pratica, quella di costruire gli equilibri delle nazioni sulla guerra, che ha riempito di sangue la storia del mondo. Da questa situazione si esce solo osando la pace e fondandola sul diritto, sulla giustizia e sulla riconciliazione. Questa pace – pur fra mille contraddizioni e tradimenti – è stata osata alla fine della seconda guerra mondiale e ha permesso all’Europa di rinascere dalle ceneri della sua autodistruzione. Abbiamo voltato le spalle, speriamo per sempre, a un’Europa fratricida perché abbiamo proclamato i diritti inviolabili della persona, abbiamo deciso che i rapporti internazionali siano governati dal diritto, abbiamo dichiarato che la guerra non è il mezzo adeguato per la risoluzione dei conflitti internazionali. Moltissimo resta ancora da fare e purtroppo molte sono le parole rimaste solo buone intenzioni (a volte ipocrite), ma la pace che viviamo da 70 anni è frutto di quella pace osata: dobbiamo andare avanti, non tornare indietro.

Se diamo uno sguardo profondo, di fede, ci accorgiamo che dalle ferite dei totalitarismi e della Seconda guerra mondiale siamo guariti grazie a coloro che hanno saputo dare la vita. La storia va avanti grazie a coloro che donano la vita, non a quelli che la distruggono. Il Signore ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Ha rimandato i ricchi a mani vuote[3].

La nostra Europa non può permettersi di ammalarsi di nuovo. Deve, invece, guarire da quelle nuove malattie che la invecchiano e la privano di speranza, di attesa, di capacità di far spazio alle giovani generazioni. La nostra Europa non può più permettersi di procedere in ordine sparso nello scenario internazionale. Deve, con unità di intenti, di interessi e di valori, cogliere le sfide epocali del mondo, che – volenti o nolenti – è un’unica famiglia di popoli, in cui l’ingiustizia subita dall’uno ha conseguenze, presto o tardi, nella vita interna dell’altro. Fenomeni di tale portata che nessuna nazione, neanche la più potente, potrà mai affrontarli da sola.

Cari amici e care amiche pugliesi, nella vostra storia è scritta la consapevolezza che non c’è Europa senza Mediterraneo e non c’è Mediterraneo senza Europa. Non ci potrà mai essere un’Europa stabilmente in pace, senza pace nel Mediterraneo: la guerra in Ucraina, con tutte le sue implicazioni, sta lì – purtroppo – a dimostrarlo. Essa non è che un pezzo della «guerra mondiale a pezzetti» di cui il Mediterraneo costituisce uno degli snodi principali. Giorgio La Pira parlava del «grande lago di Tiberiade» e della «casa comune europea»: esse sono, appunto, realtà che si reggono o cadono insieme. La casa comune europea è – nel pensiero di La Pira – più grande dell’attuale Unione Europea, è una realtà sinergica, che va dall’Atlantico agli Urali, nella quale il cristianesimo ha affondato le sue radici, ha plasmato le società e respira – come diceva san Giovanni Paolo II – con due polmoni, nonostante le divisioni che permangono e che purtroppo talvolta si aggiungono.

Credo che la presa di coscienza della comune responsabilità dei cristiani europei – dall’Atlantico agli Urali, ma anche da Nord a Sud – nei confronti della pace, della giustizia e della riconciliazione fra i popoli sia una premessa necessaria per la stabilizzazione dell’area mediterranea e mediorientale, quindi per la prosperità e la pace di tutte le nazioni.

Un orizzonte che non siamo soli a sognare, perché è anche il sogno di Dio: la promessa e la prospettiva del suo Regno, verso cui il cristiano non smette di camminare. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio![4]

Se dovessi indicare una parola chiave del mio intervento, indicherei la parola «frontiera». Non c’è dubbio, infatti, che il Mar Mediterraneo sia una «frontiera» nel senso classico di «confine»; esso infatti separa spazi controllati da Stati diversi ed è presidiato militarmente. Tuttavia, non è una frontiera solo in questo senso, ma anche in quello traslato di «punto di partenza», di «sfida verso nuovi orizzonti». Alludo allo «spirito di frontiera», alla capacità di andare oltre l’esistente, di cogliere le sfide. Del resto è evidente: da millenni il Mar Mediterraneo non è solo il luogo dove i popoli si «fronteggiano», ma anche il «canale» attraverso il quale passano idee, culture, persone, merci. Il mare non è testimone solo della brutalità delle guerre e dei respingimenti, ma anche dei commerci che generano prosperità e – non dimentichiamolo mai – dell’audacia di chi segue virtute e canoscenza. Penso a san Paolo, più che a Ulisse, e a tutti gli evangelizzatori della storia; penso anche ai testimoni concreti della fraternità universale. Il mio pensiero va oggi, in particolare, a Silvia Costanza Romano: preghiamo il Signore per la sua incolumità e per il suo ritorno a casa, il prima possibile.

Il Mediterraneo unisce e divide i popoli rivieraschi, unisce e divide il mondo. La storia dell’Europa moderna ci dice che quando il Mediterraneo è usato per dividere, i poveri – a qualsiasi riva appartengano – finiscono per soffrirne. È un inganno demagogico e pericoloso far credere che la divisione offra garanzie: l’interdipendenza dei popoli, infatti, non è una scelta ideologica «buonista», è un dato di realtà che va gestito. Questa la sfida che ci troviamo a vivere, care sorelle e cari fratelli: una sfida che noi cristiani cogliamo per rimanere fedeli alla sequela di Gesù.

Per capire qual è il nostro contributo di discepoli di Gesù nel Mediterraneo, conviene partire – è la grande tradizione della Chiesa che lo insegna – dalla confessione del peccato.

Se guardiamo alla storia, dobbiamo riconoscere che i cristiani hanno assecondato e alimentato, con le loro divisioni, la contrapposizione nel Mar Mediterraneo. Pensiamo alla prima grande frattura fra calcedonesi e non calcedonesi: i cristiani, non parlandosi, hanno rinunciato a essere seme di fraternità fra le sponde del Mediterraneo. Successivamente, con la caduta dell’Impero romano di Occidente, anche la Chiesa – pur se più lentamente – si è fatalmente divisa, fra Oriente e Occidente: ancora una volta, la linea di frattura passa anche dal mare. In epoca moderna, all’interno della parte occidentale del continente, la contrapposizione fra confessioni cristiane ha contribuito alle grandi tragedie della storia dell’Europa e del Mediterraneo.

Insomma le divisioni confessionali, all’interno del cristianesimo, hanno rafforzato quelle politiche e militari. L’intolleranza reciproca fra religioni (fra ebraismo, cristianesimo ed islam) ha alimentato la contrapposizione fra Impero ottomano e cristianità e reso possibile le persecuzioni degli ebrei, fino all’immane tragedia – oramai in un contesto secolarizzato – della Shoah. Abbiamo costruito coscienze ecclesiali autocentrate contribuendo così alla divisione del grande lago di Tiberiade.

Tra qualche mese, a Bari, verrà ospitato l’incontro dei vescovi del Mediterraneo. Questo incontro nasce dalla voglia di congedarsi da questi schemi, nasce anche da alcune semplici considerazioni. La prima: i problemi che affliggono il Mediterraneo, compresa la tragedia delle migrazioni, si risolvono a partire dalla coscienza dei popoli rivieraschi di appartenere – pur in tutte le differenze – ad una medesima realtà mediterranea.

La seconda considerazione è che la Chiesa è mediterranea per diritto di nascita. Il mare è il mezzo attraverso il quale il cristianesimo ha valicato i confini etnici, linguistici, culturali. È grazie al Mediterraneo (come opportunità transculturale, come spazio di interculturazione) che è stato possibile concettualizzare e annunciare la portata universale della resurrezione di Cristo. Le Chiese da cui è partita la spinta missionaria verso tutto il mondo non possono più rinunciare al respiro mediterraneo che le unisce, perché questo nostro mare è uno snodo fondamentale per la testimonianza cristiana.

Se i cristiani prendono maggior coscienza della loro mediterraneità, della loro appartenenza reciproca, se organizzano le loro strutture di comunione e di discernimento tenendone conto, sia a livello intra-cattolico (con tutta la ricchezza delle tradizioni ecclesiali in comunione col vescovo di Roma), sia a livello ecumenico; se essi affrontano insieme la chiamata al dialogo interreligioso, tenendo conto che la triplice famiglia di Abramo (come la chiamava La Pira) ha una comune origine mediterranea; se praticano l’ecumenismo della carità e lottano insieme per la giustizia e la salvaguardia del creato; se prendono coscienza che l’ecumenismo dei martiri ha già realizzato quella perfetta comunione ecclesiale verso cui tutti stanno camminando: allora il loro servizio alla pace fiorirà, perché le sorprese di Dio non sono finite, come non sono finite le sue promesse. E le sue promesse sono il senso e la direzione della storia, il senso della vita di ciascuno di noi.

Cari amici, care amiche che studiate e insegnate la teologia, siete chiamati a mettervi a servizio del discernimento evangelico ed ecclesiale in questo crocevia di popoli, di culture, di religioni; in questo mare bellissimo che è stato trasformato nel cimitero a cielo aperto dall’ennesima strage della contemporaneità; in questo grande lago che va difeso nei suoi delicati equilibri ecologici.

Prendiamo coscienza che stiamo vivendo un passaggio epocale e fondiamo, con fedeltà e creatività, la nostra riflessione sui paradigmi teologici della svolta profetica del Concilio Vaticano II, alla luce della nuova fase di ricezione inaugurata dal pontificato di Francesco. Il Concilio ci ha dato gli strumenti per varcare, saldi nella fede, la frontiera di questo cambiamento di epoca senza essere turbati dall’inevitabile insicurezza per le tante cose che in questo passaggio non possiamo portarci dietro. Se alcuni eventi della storia religiosa hanno fatalmente assecondato e alimentato la frammentazione mediterranea ed europea, il Concilio ha rovesciato questa prospettiva.

Per tale motivo, è importante fare brevi riferimenti a singoli documenti del Concilio, con la raccomandazione, tuttavia, di non isolarli, perché il corpus conciliare – come sapete meglio di me – può essere interpretato e recepito solo in modo intertestuale.

La Dei verbum coi suoi insegnamenti sulla dimensione dialogica ed amicale della Rivelazione, sulla sua trasmissione, sull’ispirazione, sull’autorità divina ed umana delle Sacre Scritture, ci permette di comprendere una cosa prima difficilmente comprensibile: e cioè che la nostra adesione al Vangelo di Gesù è stata resa possibile dal fatto che la Parola del Signore e la narrazione degli eventi della sua vita – per la potenza dello Spirito Santo – sono arrivati fino a noi in forza di coraggiosi e profondi processi interculturali.

Questi processi – nella loro dimensione necessariamente teologale – sono già attivi nel momento stesso della formazione dei testi sacri. Il Vangelo si diffonde (e la comprensione del mistero cristiano cresce) nella misura in cui la fede è trasmessa, vissuta, compresa e riflettuta in nuovi paradigmi culturali. Al contrario, il cristianesimo si arresta nella diffusione missionaria e nella comprensione del suo mistero quando si identifica con una sola civiltà, contrapposta ad un’altra. È vero: il fatto cristiano permea le società e costruisce civiltà, ma sempre le trascende.

Ne deriva che il dialogo con le altre religioni non è in nessun modo riconducibile e riducibile a una pratica di buon vicinato è, invece, una dimensione teologale fondamentale della vita della Chiesa. Il discorso sarebbe lungo e sta a voi teologi portarlo avanti; da parte mia posso solo richiamare, a pochi giorni dalla sua beatificazione (assieme ad altri diciotto martiri, donne e uomini, fra cui il vescovo domenicano Pierre Claverie) il testamento del beato Christian de Chergé:

Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze[5].

Unitatis redintegratio ha chiuso nel 1964, con Paolo VI, l’epoca della contrapposizione e delle controversie fra cristiani. Le loro divisioni non potranno più alimentare le fratture fra i popoli e anzi – come insegna papa Francesco – i cristiani non hanno più scuse di fronte alle esigenze dell’ecumenismo della carità, della giustizia, della salvaguardia del creato. L’epoca nuova, ecumenica, ridona alle Chiese – se vorranno cogliere questo dono! – il respiro mediterraneo delle origini e le rende seme di giustizia e di pace.

Nostra aetate nel 1965, e la ricezione estensiva che di questo documento è presente nel magistero del santo papa Giovanni Paolo II, ha radicalmente invertito il processo di estraniamento reciproco e violento fra cristiani ed ebrei. Il mistero del «popolo eletto» è un mistero cristiano, appartiene alla nostra fede! Il cristianesimo non potrà più prescindere, per comprendere se stesso, dal mistero di Israele. Il cristiano, cioè, ha bisogno dell’ebreo, del diverso da sé, per essere cristiano e per comprendersi come tale! È un mistero bello di Dio e della sua fedeltà irremovibile alle promesse, è la sua gioia segreta di stabilire la comunione, giocando sulle differenze.

Naturalmente non solo il dialogo ebraico-cristiano ma, dentro questo medesimo filo rosso della guida divina della storia che costruisce la comunione nelle differenze, anche il dialogo con l’islam assume un significato epocale. Questo dialogo trionferà sull’arroganza e la violenza omicida dei fondamentalisti. Fiorirà e fruttificherà, con grande fecondità, il sangue dei martiri! Questo stesso sangue, tuttavia, ci impone di vigilare con severità e di recidere, anche nel cristianesimo, le radici malate del fondamentalismo.

Dignitatis humanae del dicembre 1965, ancora Paolo VI, è for- se il dono più delicato e più difficile che possiamo portare all’umanità contemporanea, attraverso l’evangelizzazione e il dialogo inter- religioso. Un dono che porgiamo con umiltà e in atteggiamento penitenziale, perché sappiamo essere un punto di arrivo estrema- mente faticoso della nostra coscienza ecclesiale e politica; un arrivo segnato da una storia di cupa intolleranza. Un punto di arrivo che la Santa Sede, nel magistero dei papi postconciliari e nella sua attività diplomatica, propone come caposaldo della convivenza all’interno delle nazioni e fra le nazioni. Ma tutti i cristiani devono porgere questo dono prendendo sul serio la vertiginosa responsabilità di essere liberi di fronte a Dio. Non hai preso sul serio la libertà di fronte a Dio se non sei libero anche davanti ai potenti di questo mondo e agli idoli di questo mondo. Non sei davvero libero se la tua libertà non si traduce in azioni responsabili per la liberazione dei tuoi fratelli, oppressi dai potenti, dai malvagi e dai bisogni.

Sia Gaudium et spes sia Evangelii gaudium ci richiamano alla profondità cristologica dell’opzione preferenziale dei poveri. Volgere le spalle ai poveri significa volgere le spalle a Cristo. L’umanità dei poveri e la divinità di Cristo si coniugano insieme! Dobbiamo essere molto chiari su questo, perché è in gioco la credibilità della testimonianza in Gesù risorto da parte del cristianesimo occidentale. Laudato si’ e il magistero del patriarca Bartolomeo ci mettono davanti alle nostre responsabilità per la salvaguardia del creato. Una questione che, assieme al potenziale distruttivo delle armi nucleari, costituisce l’orizzonte, per molti aspetti drammatico, che stiamo vivendo.

Un orizzonte che ci chiama ad assumere queste responsabilità come cristiani mediterranei: innanzitutto, perché riconosciamo la vocazione alla pace di una Chiesa che desidera attingere con gratitudine e gioia alle sue radici mediterranee; e in secondo luogo, perché il nostro mare è un crocevia degli equilibri geo-politici, sociali, demografici, economici, energetici ed ecologici di ben tre continenti e quindi del mondo intero.

 

Card. Gualtiero Bassetti

Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della Cei

 

[1] Francesco, Lettera al Gran cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di teologia, 3 marzo 2015.

[2] Cfr. A. Spadaro, Intervista a papa Francesco, in «La Civiltà Cattolica», n. 3918 – III, 2013, pp. 449-477.

[3] Luca 1, 52-53.

[4] Matteo 5, 9.

[5] Comunità di Bose (a cura di), Più forti dell’odio: gli scritti dei monaci trappisti uccisi in Algeria, Piemme, Casale Monferrato, 1997, p. 182.