Foto Romano Siciliani

Un Erasmus Mediterraneo per gettare le basi di una società ritrovata

Il “Mare Nostrum” non è più, come in passato, al centro del planisfero. Le grandi rotte economiche, finanziarie e geopolitiche si sono da tempo riposizionate altrove. I player globali oggi si chiamano Cina, Corea del Sud, Brasile, Sudafrica, Messico, India, che si aggiungono ai consueti Stati Uniti, Giappone, Russia, Arabia; domani, forse, si parlerà di Nigeria, di Canada, di Pakistan o di qualche altro gigante asiatico. Eppure l’area euro-mediterranea ha ancora molto da dire al mondo. Resta infatti tra le più popolate, con immense ricchezze naturali oltre che economiche, senza trascurare quelle a carattere culturale, artistico, religioso. Sì, il Mediterraneo è vivo, benché sulle sue sponde si affaccino tre macro-regioni, assai differenti tra loro, con evidenti elementi di crisi: l’Europa meridionale, l’Africa settentrionale, il Medio Oriente.

Cos’ha dunque da dire il Mediterraneo al mondo di oggi? Quale il possibile contributo alla storia del terzo Millennio? Domande che hanno sollecitato, e continuano a farlo, studi, incontri, riflessioni, dibattiti, progetti.

Senza peraltro individuare strade concrete per rilanciare l’area mediterranea con i suoi Paesi e i suoi popoli, che, di volta in volta, si affannano tra economie generalmente in ritardo rispetto a quelle dei protagonisti planetari, instabilità politiche e vere e proprie guerre, incontrollabili movimenti migratori di massa, non poche situazioni sociali segnate da divisioni etnico-religiose, ritardi nello sviluppo, povertà conclamate.

Un quadro a tinte eccessivamente fosche? Può darsi. Ma chi scommetterebbe, oggi, su un’Europa mediterranea protagonista nel Vecchio continente e, dunque, su scala mondiale? Chi potrebbe dirsi certo che l’Africa del Nord avrà, in tempi ragionevoli, una significativa accelerazione economica e sociale, accompagnata da un irrobustimento dei processi democratici? Chi sosterrebbe lo stesso per quella problematica parte di Asia che comprende Siria, Israele, Palestina, Giordania, Libano, e ingombranti vicini di casa come la Turchia, l’Arabia o l’Iraq?

In anni recenti più volte è risuonata l’esigenza di “avvicinare le due sponde” del mare, proprio al fine di rilanciare la regione sotto diversi profili, valorizzando magari gli stretti legami storici, le reciproche influenze culturali, il dialogo interreligioso (laddove sono nate le grandi religioni monoteiste); puntando, inoltre sulle strette relazioni economiche, i comuni interessi nei campi della sicurezza e difesa, dell’approvvigionamento energetico, della cura per la ricchezza-mare…

In questa direzione vanno annoverati i tentativi, più o meno riusciti, soprattutto a partire dagli anni ‘90, di dar vita a una cooperazione euromediterranea stabile e feconda; la quale, soprattutto grazie all’Unione europea e a pochi Paesi della sponda sud, ha trovato qualche significativo momento di incontro. In questo senso si potrebbe citare l’esperienza più nota, ossia l’“Unione per il Mediterraneo”, organizzazione intergovernativa che, ad oggi, raggruppa almeno formalmente 42 Stati: i 28 membri Ue, 3 balcanici (Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro), e altri del bacino mediterraneo (Principato di Monaco, Algeria, Tunisia, Egitto, Mauritania, Marocco, Giordania, Autorità palestinese, Israele, Libano, Turchia. Siria e Libia risultano in stand by). Fondata nel 2008, l’“Unione” avrebbe dovuto prendere il posto – e rilanciare – il Partenariato euro-mediterraneo (Euromed) istituito nel 1995 con il nome di Processo di Barcellona.

Ma l’EuroMed è per lo più rimasto sulla carta: vede periodici momenti di confronto (tra governi o tra parlamenti), ma fatica a dare una qualsiasi concretezza agli scopi per il quale era sorto: far crescere l’integrazione in direzione Nord-Sud ed Est-Ovest tra i Paesi aderenti, assegnare maggiore stabilità politica all’area, prevenire o smorzare i conflitti, conferire slancio a una crescita economica sostenibile, promuovere lo sviluppo umano, prevenire e rallentare in questo modo i flussi migratori. A suo tempo erano stati individuati precisi settori di intervento comune (e con investimenti concertati): diritti umani fondamentali; temi sociali e lavoro; giovani e istruzione; casa, salute; acqua e ambiente; energia; collegamenti e trasporti. Ma, appunto, EuroMed è rimasto al palo.

Si intravvedono luci per questa parte del Pianeta? Occorre a questo proposito fare riferimento alle sfide globali e alla possibilità di governarle in una regione segnata dai problemi sopra menzionati.

I nodi da sciogliere sono parecchi, ma è altrettanto vero che sarebbe necessario comprendere come un vero partenariato fra i Paesi che si affacciano su questo mare porterebbe vantaggi reciproci. E ciascuna delle sponde – europea, africana, mediorientale – dovrebbe mettere in gioco le risorse che ha a disposizione: umane e culturali (quanti giovani e quanta conoscenza s’incontrano a queste latitudini!), finanziarie, naturali, energetiche… Ugualmente andrebbero contrastati, assieme, i nemici della crescita: ad esempio il terrorismo, i fondamentalismi religiosi, quelle tradizioni e costumi che tagliano la strada ai diritti umani, l’ignoranza, le prevaricazioni politiche, le ingiustizie sociali. Per tutto questo servono anche investimenti freschi: non a caso a Bruxelles si parla di un “Piano Marshall” per l’Africa (50/60 miliardi, per iniziare), che andrebbe esteso alle rive orientali del Mediterraneo, cui aggiungere fondi “freschi” presenti in loco (Israele, ad esempio, ne possiede). Il tutto ulteriormente favorito da una nuova, fitta rete di scambi, commerciali certamente, ma anche pensati per le giovani generazioni: una sorta di Erasmus Mediterraneo, così da gettare le basi, nel medio-lungo termine, di una ritrovata società mediterranea.

Sogni? Ci sono casi, come questo, nei quali sarebbe colpevole non averne.

Gianni Borsa

corrispondente dell’Agenzia Sir da Bruxelles e Strasburgo