Può l’esperienza religiosa essere terreno di incontro, forza di pace? Non è forse ciò che divide che contrappone dal momento che ciascuno difende ad oltranza la verità della propria fede? Non c’è forse nelle religioni il germe della violenza a partire dall’affermazione di una verità assoluta che non tollera confronti e si sottrae ad ogni possibile discussione?
Se guardiamo ai fatti della storia passata e presente, sembrerebbe che la convivenza pacifica tra gli esseri umani non possa essere in alcun modo garantita dal riferimento alla religione e alla fede. Che altri siano i valori da mettere in campo gli strumenti e i criteri di cui avvalersi per costruire il mondo comune. Sembrerebbe anzi che più la religione viene espunta dal contesto pubblico più la democrazia il confronto libero e la cooperazione responsabile risultino praticabili. Tutt’al più può essere fatto valere un vago riferimento alla spiritualità, dimensione propriamente umana, ricerca di un senso globale per il proprio vivere, intima tensione di trascendenza, che non si lega però ad alcuna fede professata o creduta e neppure a un qualsivoglia Dio. Una spiritualità senza Dio che perciò stesso sarebbe terreno neutro di un incontro possibile in ordine all’umano.
Eppure la storia nella sua concretezza ci racconta di altro. Di battaglie e di scontri certamente, di guerre fatte in nome di Dio, ma anche di legami, di scambi, di condivisione e di contaminazione feconda rese possibili dalla fede. La storia, quella concreta, è fatta di esperienza vissuta. E dentro l’esperienza il riferimento alla fede remoto, dimenticato e negato o esplicitamente riconosciuto e professato, ha agito, e continua ad agire, come orizzonte di senso donato, intuito, e, sia pure implicitamente, cercato.
Il nostro Mediterraneo racconta una storia, fatta di molte storie che si intrecciano, in cui la fede ha un posto di tutto rilievo. Come si possono comprendere la vita, i colori e i sapori, l’arte, le lingue, i valori che si respirano in questo mare nostrum da una sponda all’altra, senza il riferimento alla fede, alla fede vissuta dei suoi popoli, all’esperienza di Dio che ne ha sostenuto il cammino che ha dato forma alle città e ritmato il lavoro dei campi che ha scandito il tempo e conferito solidità ai legami?
Non si può parlare del Mediterraneo senza far riferimento alle grandi tradizioni religiose che qui affondano le loro radici, senza parlare dell’esperienza religiosa. La religiosità popolare[1] è la testimonianza di quanto questo mare sia “mare del meticciato” come lo ha definito Papa Francesco[2]. Non però nella linea di un sincretismo in cui tutto si sovrappone e si confonde, ma in quella di una “reciproca inculturazione”[3]. Nel linguaggio simbolico della religione vissuta dal popolo si lascia sicuramente avvertire, insieme a sovrapposizioni e stratificazioni, l’intreccio profondo della fede con la vita: con i luoghi e le pietre, i paesaggi, la terra e il mare con le loro asperità e minacce ma anche con il fascino e la promessa di cui sono custodi. Ma è soprattutto l’intreccio delle storie che questa religiosità racconta. L’incontro con l’altro, gli scambi, gli scontri, la trama di relazioni che il tempo ha tessuto e dentro la quale c’è l’identità dei popoli nel suo dinamico costruirsi. Il Mediterraneo ci ricorda che ogni cultura, ogni identità e tradizione, è fatta di contaminazione, nasce e si sviluppa nel tempo come un intreccio di fili, dentro una storia che non è mai un insieme di frammenti irrelati, di individualità separate. Per questo il Mediterraneo è e può essere luogo di dialogo in cui trovare insieme “narrazioni rinnovate e condivise che – a partire dall’ascolto delle radici e del presente- parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza”[4]. Le religioni, se ascoltate in ciò che hanno di più profondo, sono portatrici di questa narrazione. Lo sono per l’esperienza religiosa che ne è al cuore. Possono aiutarci a ritrovare ciò che ci unisce, se ascoltate nell’esperienza di Dio che le origina. Il mistero di Dio, che non può essere “addomesticato” e che sempre ci sorprende quale misericordia infinita, non è lontano da nessun essere umano, non è lontano dalla concretezza della vita della gente – di chi crede e di chi non crede- non è lontano dalla storia dei popoli. Capire in profondità l’esperienza religiosa consente di ritrovare la relazione a Dio come ciò da cui veniamo, in cui siamo, ci muoviamo; consente di capire l’amore di Dio per l’uomo, il suo comunicarsi a noi, la sua presenza che rende la storia di ciascuno e la storia umana Terra Sacra persino nelle loro “aberrazioni”. A questa lettura ci abilita la Rivelazione in Cristo Gesù[5].
Per questo il dialogo con le altre religioni, “soprattutto con l’Ebraismo e l’Islam”, può contribuire “all’edificazione di una società che apprezza la diversità e favorisce il rispetto, la fratellanza e la convivenza pacifica”[6], “la maturazione di una fraternità sempre più dilatata ed inclusiva”[7]. E per questo il Mediterraneo può essere nel “nome di Dio” frontiera di nuova umanità.
Giuseppina De Simone
Coordinatrice della Specializzazione in Teologia Fondamentale
Teologia dell’esperienza religiosa nel contesto del Mediterraneo
PFTIM Napoli
[1]Cf E. Salvatore- C. Torcivia, Quando a credere è il popolo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2019
[2] Francesco, La Teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo, Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sezione San Luigi, Napoli 21 giugno 2019.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] All’esperienza religiosa, teologicamente compresa come terreno di incontro nel contesto del Mediterraneo, è dedicata la Specializzazione in Teologia Fondamentale attivata da due anni presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. San Luigi.
[6] Francesco, La Teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo, cit.
[7] Ibidem