Il “Mare Nostrum” è stato nei millenni il locus d’incontro, per eccellenza, di civiltà che hanno segnato la Storia dell’umanità. Idealmente, ancora oggi, dovrebbe rappresentare quello spazio liquido capace di affermare l’incontro tra i popoli. Eppure esso sta assumendo sempre più i tratti fisiognomici del “Mare Monstrum”, non foss’altro perché rappresenta l’impedimento più rilevante per tanta umanità dolente che anela alla liberazione
Il Mare Mediterraneo è la cartina al tornasole del nostro povero mondo, metafora delle prevaricazioni e vessazioni perpetrate nelle periferie geografiche ed esistenziali di questo primo segmento del Terzo Millennio.
Esso disegna anche la linea di faglia tra Meridione e Settentrione, dunque una precisa area sensibile di contrapposizione tra opposti interessi, nell’ampia cornice della globalizzazione. Negli anni Settanta, come molti ricorderanno, la crisi petrolifera prima, la rivoluzione iraniana e l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’ex Unione Sovietica poi, mutarono l’intero quadro strategico del Mediterraneo, che divenne gradualmente la retrovia di una ben più vasta area di instabilità, comprendente tutto il Medio Oriente, il Golfo Persico e il Mar Rosso, con un complesso intreccio dei problemi derivanti dal confronto Nord/Sud.
Dopo l’11 settembre 2001, questa fenomenologia si è, per certi versi, acutizzata, trasformando il Mediterraneo nel penoso bacino di scolo dei tanti conflitti che interessano fronti relativamente lontani. E ciò non solo in Medio Oriente, ma anche nell’area balcanica, e soprattutto in Africa. E poi, come tutti sanno, è arrivata la Primavera Araba, un qualcosa che sembrò riproporre, almeno per analogia, i sentimenti e le istanze di cambiamento di vasti settori del mondo islamico. La sensazione era che qualcosa d’inedito si stesse profilando sull’orizzonte, che anche i più retrogradi tra i regimi potessero essere rovesciati, che la comunicazione internettiana fosse in grado di dare voce a chi non ha voce.
La Primavera Araba – sappiamo tutti bene – ha attraversato i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, per quella che resta forse la più vergine e pura delle rivolte popolari dell’epoca contemporanea, anche se poi ha subito un graduale e a tratti brusco raffreddamento.
Indubbiamente, la sponda sud del Mediterraneo continua a rappresentare una delle aree, politicamente, più instabili a livello globale. La stagione del cambiamento politico, iniziata nel 2010 con le proteste in Tunisia, ha modificato in modo radicale il profilo della regione, innescando processi di democratizzazione tuttora incompiuti e dalle dinamiche non omogenee. In tutti i Paesi interessati dal cambiamento politico (a parte la Tunisia), le profonde trasformazioni sono state accompagnate da un abbassamento del controllo istituzionale sui processi sociali ed economici, che si riflette, fra l’altro, sui movimenti migratori regionali. Ad esempio, in Algeria, la transizione politica, innescata dalla caduta, sull’onda di formidabili proteste di piazza, dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika, non vede sbocchi all’orizzonte.
Ecco, allora, che proprio perché l’esito della fase di transizione politica di questi Paesi è ancora incerto, sono necessarie politiche economiche e sociali più inclusive: non c’è democrazia economica senza inclusione. Duole doverlo scrivere, ma di fronte ai processi di transizione democratica in corso nei Paesi della Primavera Araba, i governi europei avrebbero dovuto favorire in questi stessi Paesi una “democratizzazione inclusiva”, che includesse cioè non solo i governi ma anche i vari attori della società civile, giovani, donne e parti sociali. Ciò purtroppo non è avvenuto o è avvenuto solo in parte.
È del tutto normale, allora, che persone in crisi a casa propria, sia per guerre che per povertà, si affannino alla ricerca di una vita migliore, correndo anche spaventosi pericoli.
Tuttavia è importante anche sottolineare quanto la globalizzazione, intesa come la diffusione di standard e modelli consumistici di benessere, non faccia che acutizzare la frustrazione e l’impotenza a cui molte persone sono costrette a soggiacere nei rispettivi Paesi d’origine, spingendole a paragonare le loro condizioni di vita, di fatto perdenti, con quelle vigenti negli Stati più benestanti. Se è ovvio, come nei casi della Siria e della Libia, definire il flusso migratorio come il prodotto di una congiuntura politica parzialmente imprevedibile, mentre in quelli della Somalia e dell’Eritrea vi sono crisi irrisolte e, dunque, cronicizzate, la mobilità umana non ha origine necessariamente da contingenze legate alla guerra, ma da una condizione strutturale di diseguaglianza. Un dato forse sorprendente è, infatti, che una parte degli immigrati in fuga non provenga dai Paesi più poveri, ma da quelli che si situano al di sopra della soglia di povertà, senza, però, aver raggiunto standard di vita considerati soddisfacenti. Tra questi, ad esempio, l’Algeria, la Tunisia e il Marocco, che si collocano tutti in una fascia medio-alta di Hdi (Indice di sviluppo umano). Ovviamente, tale indicatore stilato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp), non concorre a spiegare la distribuzione interna della ricchezza ed è per questo che le stesse Nazioni Unite hanno elaborato, nel 2011, un nuovo indice di sviluppo umano, che tiene conto delle disuguaglianze interne ai Paesi (Ihdi). Tuttavia, il dato da solo basta ad evidenziare che la migrazione non avviene solo per congiunture imprevedibili come guerre, disastri ambientali o fame, ma anche per gli effetti di lungo termine della globalizzazione. Una cosa è certa: il tema del Mediterraneo non può essere affrontato secondo le logiche della sicurezza frontaliera. Un simile approccio è miope e inefficace. Evangelicamente parlando, la sfida è quella di farne un luogo d’incontro solidale, nella Casa Comune.
Giulio Albanese