Fra le navate della Cattedrale di Scutari, in uno degli altari laterali compaiono i volti dei trentotto martiri di Albania. Tutti beati. E tutti vittime della persecuzione contro la Chiesa cattolica organizzata dal regime comunista sotto Enver Hoxha. Le immagini in bianco e nero riempiono un’intera parete. «Ci riteniamo e siamo realmente figli dei nostri martiri della dittatura del XX secolo. E l’esperienza della persecuzione ci ha insegnato a perseverare nella fede, a essere piccolo gregge fedele al suo pastore e maestro e alla sede di Pietro dalla quale spesso hanno tentato di staccarci», racconta l’arcivescovo di Scutari-Pult, Angelo Massafra. Oggi la comunità cattolica è una minoranza nel Paese: poco più 500mila fedeli su una popolazione di quasi 3 milioni di abitanti. Ma in crescita. «Siamo risorti dalle macerie e possiamo presentarci di fronte alla società come forza morale», spiega Massafra.
Frate minore francescano, originario di un antico centro arbëreshë della Puglia, San Marzano di San Giuseppe, è vescovo in Albania dal 1996: prima a Rrëshen, poi a Scutari. Lo scorso febbraio è stato eletto per la terza volta presidente della locale Conferenza episcopale. E in questa veste parteciperà all’incontro dei vescovi del Mediterraneo che si terrà a Firenze dal 23 al 27 febbraio e che avrà al centro il tema della cittadinanza letto alla luce della fraternità e dell’abbraccio fra i popoli. «Ogni possibilità di incontro non è solo costruttiva, ma anche espressione di vera ecclesialità così come ci sta insegnando il cammino del Sinodo voluto da papa Francesco – afferma l’arcivescovo –. Ovviamente il tema della pace ha numerose declinazioni: come Chiese abbiamo questa missione che ci deriva dal Vangelo e non possiamo sottrarci a un compito che per quanto impegnativo ha bisogno del nostro coinvolgimento personale e comunitario. Ben vengano, allora, iniziative che aiutano a sensibilizzare alla cultura della pace al di là di ogni barriera».
Eccellenza, la Chiesa albanese, benché piccola, è in espansione mentre in gran parte dell’Europa la comunità cattolica arranca. Come lo spiega?
Non penso sia solo una questione di numeri. Tanto più che l’Albania sta registrando un movimento migratorio e uno svuotamento senza precedenti: famiglie intere lasciano la propria terra aspirando a situazioni di vita migliori. Piuttosto, parlerei di una crescita nella logica della maturazione di un’appartenenza ecclesiale. Certamente c’è ancora molto lavoro da fare , ma i tempi sembrano maturi per una svolta decisiva, dopo quelli fisiologici della ripresa dal periodo buio della dittatura. Del resto la Chiesa è impegnata qui in molti ambiti: dalla carità alla formazione, dalla cultura all’assistenza a poveri, malati e emarginati. Tutto ciò avviene grazie al contributo dei missionari e delle missionarie, ma anche al generoso coinvolgimento dei fedeli e alla collaborazione con istituzioni locali e straniere.
Si soffre per il numero ridotto di sacerdoti?
La situazione in alcune zone rasenta la drammaticità in quanto impossibilitati a offrire un servizio pastorale. E, mentre ci si organizza senza risparmio per soddisfare il bisogno religioso nei villaggi, anche i più sperduti, lavoriamo molto per le vocazioni. Tutto ciò in un contesto sociale ormai allineato agli standard europei che rende arduo consentire ai giovani di rispondere alla chiamata alla vita religiosa e sacerdotale.
Siete una Chiesa povera, anzi poverissima.
Ogni Chiesa vive grazie al contributo dei propri membri e alla cooperazione tra Chiese. I nostri fedeli, nella maggior parte dei casi, non sono persone abbienti, ma povera gente che contribuisce come può, spesso in beni di natura. Ma nella mia mente scorre anche l’infinità di progetti di aiuto realizzati con le Chiese di tutto il mondo.
A Firenze si parlerà del rapporto fra Chiesa, società e istituzioni politiche. In Albania la comunità ecclesiale gode di stima.
Restiamo un riferimento con indubbie e comprovate storie di impegno per il bene del Paese, la sua libertà, la sua rinascita, la rivendicazione dei diritti fondamentali dei cittadini. Le istituzioni politiche ne sono consapevoli e ci ammirano. Comunque non è facile dialogare soprattutto in un ambiente secolarizzato come il nostro.
In Albania c’è un clima di armonia tra le religioni, compreso l’islam. E la tolleranza religiosa ha storicamente caratterizzato il Paese.
È ben noto che le popolazioni balcaniche sono caratterizzate da una certa esuberanza che può sfociare nello scontro verbale e fisico. Penso che tale consapevolezza abbia contribuito anche a trovare forme di convivenza pacifica: occorre sempre puntare sul positivo e su ciò che unisce, piuttosto che sulle differenze. Non mancano punte di fondamentalismo, ma neanche persone di buona volontà seriamente dedite alla ricerca del bene.
Scuole, ospedali, centri di aiuto gestiti dalla Chiesa sono semi di fraternità?
Certo, sin dalla tenera età. Al nido i bimbi di ogni estrazione sociale e religione sono aiutati a entrare in relazione fra loro. Nelle nostre scuole si è aperti all’accoglienza di tutti, senza distinzione, senza fare proselitismo. Un po’ più difficile è agire in centri non di competenza della Chiesa, dove pure siamo presenti, come gli ospedali.
Restano i segni dell’ateismo di Stato?
Oggi la sfida sociale più importante è il perseguimento del bene comune: cosa non facile perché brucia ancora la ferita inferta dalla dittatura al punto che c’è un rifiuto di fronte a quanto potrebbe, anche solo in teoria, minare il bene privato. Ma la secolarizzazione non deriva direttamente dall’esperienza dittatoriale, quanto piuttosto dal clima contemporaneo. Non così per l’ateismo: esso è una conseguenza del comunismo dal quale con difficoltà ci si è ripresi dopo la sua caduta. Però resistono gruppi e frange di nostalgici.
Il Mediterraneo è terra di migrazioni. Dall’Albania si parte ma non si ritorna…
Coloro che rientrano sono ben pochi e chi vive da tempo in un altro Stato, dove ha messo su famiglia o ha figli ormai grandi, non si sente più albanese. L’idea di un rientro in patria, d’altro canto, fa i conti sia con la persistente carenza di infrastrutture e servizi, sia con la criminalità che tende a minare la sussistenza delle imprese con la richiesta di tangenti. Ciò ci dice quanto sia necessario correre ai ripari perché si creino condizioni di vita dignitose e giuste, di lavoro ben retribuito, di politica competente e onesta che scoraggino la fuga dall’Albania.
L’Europa ha dimenticato il sud del continente?
Dipende di quale Europa stiamo parlando: se di quella geografica o di quella istituzionale ed economica. Perché, se insistiamo a far coincidere l’Europa solo con quest’ultima specificazione, non ci sarà mai una vera comunità europea. Le leggi di mercato che determinano la gran parte delle scelte, anche politiche, non fanno un buon servizio alla costituzione di una vera Europa perché dividono ed escludono. L’Albania ha consapevolezza di essere in Europa anche a dispetto di ogni discriminazione di tipo economico. E ritengo che, al contrario di quanto sta accadendo, l’allargamento ai Paesi ad Est del Mediterraneo sia il primo passo per un coinvolgimento successivo.
Tema pandemia. Lei è stato colpito dal Covid ed è rimasto in ospedale per oltre un mese. L’emergenza sanitaria ha aggravato le ingiustizie?
Abbiamo assistito con dolore a morti e sofferenze causate dal virus, ma anche a straordinari gesti di solidarietà. Le disuguaglianze già esistenti nel Mediterraneo sono state messe maggiormente in evidenza dalla pandemia e solo chi non ha occhi si rifiuta di vederle e di attivarsi per porvi rimedio. Ecco perché il coronavirus dovrebbe spingere ad adottare i provvedimenti per superare ogni divario sociale ed economico.
Giacomo Gambassi
Da Avvenire del 13 novembre 2021